Se andate di fretta, come immagino, i primi 5 paragrafi li potete anche saltare, ma vi perdete delle storie carine.
Il Viejio
Prima di tutto vi consiglio di guardare (su Netflix, per esempio) The Mule del vecchio e arcigno Clint Eastwood (91 anni) questa volta in veste anche di attore protagonista. Sigaro spento/sigaro accesso interpreta Earl, anziano floricoltore da tutti ritenuto un po’ pazzo.
A 90 anni, ha perso l’azienda, si ritrova in miseria, è respinto dalla famiglia. Ha però una precisa filosofia che dice: se sei vecchio puoi fare veramente fare tutto e …“fan****”.
Si può andare al di là del bene e del male senza che nessuno possa farti granché. Né il Cartello, né la Giustizia. Sei un “viejo”, cavolo, che possono farti? Possono, al massimo, rinfacciartelo! In Italia, sopra i 70 anni, nemmeno ti sbattono in galera. E se ti ci sbattono, puoi fare un orto da sballo. Proprio come alla fine, fa Earl.
La vecchiaia è forse l’unica età della vita nella quale una persona può ricongiungersi con i propri diritti naturali, tendenzialmente coartati nelle altre età. Forse è veramente l’età in cui torna l’azzurro.
Bello questo brano scritto da Francesco Guccini e interpretato con grazia da Carla Bruni.
A proposito di vecchiaia
Alcuni giorni fa l’INPS mi ha comunicato che, per quanto li concerne, posso andare in pensione a 82 anni. In una delle loro frequenti e inutili “reorg” si sono fumati 15 anni di contributi regolarmente versati dalla società che ho fondato e per cui ho lavorato per 35 anni. Non c’è verso di farli ragionare. Hanno ragione loro e basta.
Per loro sono un “reietto” (definizione testuale) con tanto di numero di reiezione che è il seguente: 4201.04/02/21.0007582 – 20855880100007. Lo deve recitare a un risponditore che non lo capisce mai veramente bene. Inoltre mi hanno detto che la mia pratica non è espletata da una persona ma da un “processo”. Sembra di essere sull’Isola del Diavolo.
Poi come si fa a non pensare che l’INPS non sia un immenso schema Ponzi con il timbro della Repubblica. Allora meglio la monarchia, no? Ha ragione Braudillard a dire che la democrazia è un simulacro?
A 82 anni potrò dire a quelli dell’INPS, quello che Earl dice agli uomini del Cartello “Ragazzi che ci fate qui, perché non ve ne andate da un’altra parte?”
Possiamo però consolarci con l’esempio di Kurt Gödel che non ha avuto bisogno della vecchiaia per avere il coraggio della verità e della franchezza.
Grazie al Cobol
Quando agli inizi degli anni Ottanta ho iniziato ad avvicinarmi al mondo dei computer, per avere assistenza mi sono rivolto a Luciano, un compagno di liceo. Luciano all’epoca programmava applicazioni gestionali sotto CPM o Unix, non ricordo bene, con il linguaggio Cobol – il più verboso dei linguaggi procedurali – su un minicomputer rivestito di mogano, che si può vedere al Museo del computer di Pisa.
Mi sono incontrato molte volte con lui ed è nata una solida amicizia e anche una fratellanza professionale che è durata nel tempo. Luciano è stato capo sviluppatore del team di Thèsis che seguiva NeXT e, insieme a Gianluca, ha costruito la prima infrastruttura tecnologica di MYmovies. Recentemente ha sviluppato tutta la procedura di resocontazione automatica in tempo reale per gli autori di goWare.
Grazie a Enrico VIII
Quando, al tempo, mi incontravo con lui, Luciano mi parlava sì di informatica (come si chiama in italiano la scienza dei computer), ma soprattutto di quello che leggeva su “Byte” "(credo che abbia ancora la collezione completa di quelle annate), di musica rock e di un libro che l’aveva stregato.
Al tempo non avevo grande feeling con la musica, ma tale era il suo entusiasmo per un album, The Six Wives of Henry VIII, il lavoro solista di Rick Wakeman (che ha ancora quasi 200mila ascoltatori mensili su Spotify) che ne sono stato contagiato.
Grazie a Wakeman, tastierista anche del gruppo progressive degli Yes, ho iniziato ad avvicinarmi al rock grazie ai sontuosi girigogoli melodici, anche di stampo classico, che uscivano delle tastiere che Wakeman faceva suonare con l’abilità di un pickpocket. A proposito vi consiglio l’omonimo film di Bresson, un inno al gioco di mani e di sguardi (in lingua originale su Prime Video, altrimenti DVD San Paolo).
Gödel, Escher, Bach
Il libro di cui mi parlava spesso Luciano era Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, di Douglas Hofstadter, un libro di 800 pagine, uscito nel 1979 (ed. italiana 1984, Adelphi).
Era già molto difficile comprendere di che cosa parlasse davvero il libro che accomunava un matematico, un incisore e un musicista. La scheda del libro sul sito di Adelphi dice che ha come argomento l’intelligenza artificiale. Mah…, può essere, visto che tutto quello che non si capisce è AI…
Quando ho iniziato a sfogliarlo mi sono reso conto che c’era un buon strato di filosofia teoretica, una disciplina verso la quale Luciano non aveva grande simpatia già ai tempi del liceo.
Questo suo grande interesse mi pareva molto strano. E mi chiedevo, quindi, che relazione potesse esistere tra quelle pagine e la scienza dei computer dal mio amico praticata. Poi nel 1992 è arrivato “Wired” a spiegarmelo. Già nel 1960 l’aveva capito Martin Heidegger quando in una epica conferenza dichiarò che la tecnica e tutto fuorché tecnica.
È incredibile come certi libri riescano a rompere la capsula di un genere o di una disciplina e a imporsi al pubblico più inverosimile. Quello di Hofstadter è proprio uno di questi. Qui basti dire che grazie a questo libro sono entrato per la prima volta in contatto con Kurt Gödel, del quale addirittura all’epoca ignoravo l’esistenza.
La mente parziale di Gödel
Pochi autori come Andrea Camilleri hanno saputo condensare in una espressione colorita ed efficace il tratto fondamentale del carattere di un personaggio. Una di queste espressioni è quella di mente parziale.
La mente parziale designa una forma mentis che guarda e interpreta la realtà attraverso un filtro esclusivo che agisce indipendente dal contesto, dalle circostanze e dallo scopo. L’intuizione di trovarsi di fronte all’azione di una mente parziale permette al commissario Montalbano di risolvere casi altrimenti irrisolvibili.
Bene. Kurt Gödel era una sorta di mente parziale. Il suo filtro esclusivo era la logica, un modo di interpretare la realtà che applicava comunque in qualsiasi circostanza e ambito si trovava ad agire.
Volendola mettere su un piano più nobile, e adeguato alla statura intellettuale del personaggio, si può senz’altro dire che l’identità tra convinzione morale universale e azione è il nucleo dell’imperativo categorico, l’asse portante della filosofia morale di Kant. E l’imperativo categorico di Gödel era la logica, sempre e ovunque.
Un forse improbabile episodio della sua vita ne è la dimostrazione quasi matematica.
Viaggio al termine della ragione
Da pochi giorni è in libreria una nuova “vibrante” (NYT) biografia di Kurt Gödel scritta dal divulgatore scientifico ed etologo Stephen Budiansky che si è ispirato a Celine per il titolo del libro: Journey to the Edge of Reason. Le Life of Kurt Gödel.
Il viaggio di Gödel, raccontato da Budiansky, è veramente un viaggio fino alle colonne di Ercole della ragione e anche oltre, dove c’è solo la sua negazione.
Lo mostra chiaramente l’autore proprio nel Prologo del libro presentando gli appunti del Dr. Philip Erlich, lo psichiatra che ebbe in cura Gödel dal marzo 1970 fino alla sua scomparsa per inedia nel 1978.
Dal Circolo di Vienna al “Quaint Idyll” di Princeton
Pur avendo approvato l’Anschluss (cioè incorporazione dell’Austria nel III Reich), nel 1940 Kurt Gödel decise di lasciare il clima opprimente di Vienna per espatriare negli Stati Uniti che lo accolsero in modo congruo alla sua fama di geniale pensatore. “Il più grande logico da Aristotele”, andava dicendo Einstein di Gödel.
I due amavano fare delle lunghe passeggiate tornando verso casa dall’Institute for Advanced Study a Princeton. Di queste camminate nel verde abbiamo una documentazione fotografica e un libro scritto da John Holt, Quando Einstein passeggiava con Gödel. Viaggio ai confini del pensiero (Mondadori, 2019). Ancora un titolo celiniano!
Malgrado fosse stato accolto in America come un capo di stato, a Gödel nel 1947 fu chiesto di sostenere l’esame per ottenere la cittadinanza americana. A questa prova Gödel si preparò con la solita serietà e puntigliosità per scoprire, alla fine, che nel sistema istituzionale degli Stati Uniti progettato dai padri fondatori esisteva un vulnus logico che poteva aprire le porte alla dittatura e al fascismo.
La contraddizioni logiche nella Costituzione americana
A guardare alcuni recenti avvenimenti che hanno scosso questa grande democrazia, la scoperta di Gödel non appare più tanto stravagante quanto dovette sembrare allora anche ai colleghi di Princeton. Ma non è questo che interessa qui.
Quello che è veramente insolito è l’uso che Gödel voleva fare di questa scoperta. Un uso che rileva la sua indole e la sua visione del mondo.
Gli sembrò che accettare la cittadinanza americana senza esplicitare questa falla della Costituzione degli Stati Uniti fosse un atto insostenibile e anche immorale.
E la sede più adatta gli parve proprio l’aula di tribunale di Trenton (NJ) dove il 5 dicembre 1947, nello studio del giudice Philip Forman, si tenne l’udienza per la cittadinanza di Kurt Gödel e della moglie Adele.
Malgrado i tentativi di un incredulo Einstein – uno dei due testimoni all’udienza insieme a Oskar Morgenstern – di zittirlo, Gödel espose al giudice la sua scoperta sulle fatali contraddizioni logiche interne della costituzione americana. “Posso dimostrarle”, disse al giudice “Herr Warum” (“il sig. Perché”, n.d.tr.) il serioso nomignolo che si era guadagnato Gödel all’età di 4 anni.
L’intelligenza emotiva
Bene, Gödel doveva solo sostenere un colloquio di routine per ottenere la cittadinanza, che gli avrebbe aperto delle nuove opportunità nella patria di adozione, ma l’imperativo categorico della logica era per lui qualcosa di sacro, di alieno da qualsiasi compromesso, tale da non potervi soprassedere neppure in una circostanza che non avrebbe mai potuto influire sull’esito della sua scoperta, se non danneggiandolo.
La naturalizzazione, fortunatamente, andò nel verso desiderato. La complicità di sguardi tra il giudice ed Einstein contribuì a depotenziare il significato delle affermazione di Gödel. Einstein e Forman si erano già incontrati e conosciuti durante l’udienza per la cittadinanza dello stesso Einstein.
Puoi leggere qui l’estratto dalla biografia di Gödel di Budiansky sull’episodio della cittadinanza.
Non si sa, comunque, se si tratti di un episodio veramente accaduto o di una delle tante curiosità, più o meno leggendarie che si raccontano sulla vita di Kurt Gödel.
Per fortuna la mente parziale di Gödel incontrò l’intelligenza emotiva del giudice Forman e di Einstein che riuscirono a contestualizzarla.
Ma alla fine era stato il buon Gödel a vederci chiaro nel gridare “al lupo” rispetto alle falle della sistema istituzionale americano, perché 23 anni dopo, il 6 gennaio 2021, il lupo si è davvero presentato al Campidoglio.
Speriamo che Cortina Raffaello editore o Garzanti ci offrano un’edizione italiana di questa ottima biografia di Kurt Gödel, così come ha fatto Mondadori per il lavoro di Holt.
Post revisionato con la solita diligenza da Tiziano Tanzini.