di ADA ASCARI

Buongiorno e buon fine settimana. Torniamo al giovedì con il programmato intervento della nostra Ada Ascari. Ada, particolarmente ispirata dall’interessante argomento che tratta in questo contributo, ha preparato un quasi-saggio sull’argomento dell’utilizzo dei pronomi nella scrittura, diciamo, autobiografica.
Per non privarsi del complesso di queste originali e sperimentate riflessioni, abbiamo deciso di dividere l’argomento in due parti che vi invieremo oggi e giovedì prossimo. Iniziamo con i pronomi al singolare.
Se avete qualche curiosità supplementare potete contattare direttamente Ada (ada.ascari@gmail.com). Sarà molto lieta di rispondervi.
Buona lettura!
Scrivere di sé
Quando ci si accinge scrivere di se stessi tutti pensano che il personaggio più importante di quello che si scrive sia proprio chi sta scrivendo. L’io è considerato imperante e l’ego viene soddisfatto con la narrazione autobiografica.
Io scrivo, io sono il protagonista, io leggo e poi faccio leggere di me.
Negli anni mi sono però sempre più convinta che il personaggio principale di una autobiografia non sia solo ed esclusivamente chi scrive, ma l’io viene accostato a tutti gli altri pronomi della grammatica italiana.
Io, tu, lei o lui, noi, voi e loro sono tutti egualmente rappresentati nel mondo autobiografico e chi scrive non può fare a meno di confrontarsi con il variegato mondo che gli sta attorno.
Nella lingua italiana non è obbligatorio premettere il pronome davanti al verbo che compie l’azione, se lo facciamo è per rimarcare che proprio quel soggetto — ed infatti in analisi logica si chiama proprio soggetto — sta facendo, pensando, agendo, subendo qualcosa.
Cominciamo.
Io
Avete mai notato quante volte diciamo io? Anche se non ci facciamo caso lo pronunciamo decine di volte perché fondamentalmente siamo portati a mettere noi stessi al primo posto nella scala dei valori.
Se qualcuno ci domanda cosa stiamo facendo possiamo rispondere “scrivo” oppure “io scrivo” rendendo la risposta diversa sul piano della intonazione e delle intenzioni A volte solo le sfumature quelle che rendono il discorso più interessante. E guarda caso, il più delle volte ce lo mettiamo quell’io a rimarcare la nostra presenza nel mondo.
Una delle grandi domande di quasi tutti i filosofi è “Chi sono io?”, ma non solo i filosofi se lo domandano, anche le persone normali, quelle che hanno un minimo di consapevolezza se lo chiedono, spesso inconsapevolmente. “Chi sono? Chi sono stato? Chi potrò essere?”
La filosofia fondamentalmente esplora il mistero dell’Autos — la prima parte della parola autobiografia — trovando una tradizione filosofica antichissima.
Franz Kafka diceva “lo sono ciò che mi sfugge”. Ci rammenta che ogni presa di coscienza individuale del nostro stare al mondo rinvia a qualcosa di inafferrabile.
Ma lasciando da parte la filosofia, che non è mio campo, l’io svolge anche una funzione senz'altro operativa e pratica, ci aiuta nelle circostanze più diverse a far udire la nostra voce, rimarcare le nostre volontà, a ribadire che ci sono questioni assolutamente personali e private, che non tollerano ispezioni, incursioni indebite, aggressione da parte di una miriade di altri io.
L'io, in quanto oggetto anche misterioso, non è esente da debolezze: si mostra cedevole, accomodante e disposto, in quanto manifestazione dell'adattabilità dell'intelligenza umana, a smentirsi, a trasformarsi all’occorrenza.
Ricordate la celebre frase del Marchese de Grippo?
“Io sono io, e voi non siete un cazzo!”
Chi se la fosse dimenticato, la può riascoltare qui.
Nella scrittura autobiografica gli io si moltiplicano, non solo quelli personali e soggettivi, ma anche quelli delle persone che abbiamo incontrato, amato seguito e cercato. E che fra poco andremo a conoscerle.
L’io diventa un confine, tutto il resto diventa un “non io”.

Tu
Ed eccoci al tu. Se possiamo paragonare l’io ad un’isola il tu è un’altra isola, collegata alla nostra, magari con un ponte o un tratto di mare facile da attraversare con una barca, è un rapporto – io/tu – reciproco perché se la persona a cui diamo del tu può entrare nella nostra intimità, anche noi lo possiamo fare.
L’importante è che ci sia sempre una relazione. Ma come deve essere la relazione? Che relazione abbiamo con i nostri Tu?
Quando entriamo in relazione con qualcuno siamo sempre in bilico tra il desiderio di essere accettati e la paura di essere respinti. Solo quando si raggiunge un equilibrio si ha una relazione stabile e forte.
Tutto quindi dipende come ci collochiamo nel rapporto con i nostri Tu. È sempre un balletto andando e venendo sulla scala delle nostre posizioni relazionali.
Il tu è un bersaglio su cui puntiamo il dito, sta a noi renderlo amico o nemico.
Se noi quando scriviamo di noi usiamo quasi sempre la prima persona singolare, creando un racconto autobiografico, pochissime sono gli esempi in letteratura che hanno usato il tu — la seconda persona singolare.
Uno è La luce prima di Emanuela Tonon, struggente canto d’amore per una madre, il secondo è Profezia di Sandro Veronesi, non solo usando il tu, ma anche scrivendo tutto il libro al futuro. Grande prova letteraria, racconto di sé rivolgendosi al tu che sta accanto o che ci ha lasciato.
Per tornare a qualcosa di più conosciuto posso citare Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino in cui l’autore usa il tu rivolgendosi direttamente a chi sta leggendo. Ma qui non si sta parlando di autobiografia.
Lui o Lei
Se l’io e il tu sono sempre ben visibili nei nostri discorsi, e nella nostra vita, quando si va a parlare di Lui e Lei le cose si complicano. Chi sono Lui/Lei? che incidenza hanno nella nostra vita?
Se il tu, è il pronome della vicinanza, è chiaro che la persona a cui ci riferiamo è lì vicino a noi, non ci sono errori. Lui/Lei è distante. Tornando alla metafora dell’isola il Lui/Lei è un’isola lontana, la vediamo, ma non la conosciamo bene, dobbiamo fare un bel tratto di mare per raggiungerla.
La terza persona singolare io la definisco la prima persona del distacco, dell’oggettività, è infatti il pronome che dice, nomina, ma in effetti è vago e poco chiaro.
Lui o Lei, a volte, possiamo essere noi stessi che ci guardiamo dal di fuori, ci esaminiamo, ma nello stesso tempo ci nascondiamo alla vista.
Quando guardiamo una nostra fotografia di qualche tempo prima, e quasi non ci riconosciamo nell’immagine che ci viene restituita. Oppure può essere il nostro Lui/Lei nascosto, quello che esce quando non siamo vigili e ci sorprende e ci fa dire, “ma quella sono io?” “Sono io che ho agito così?” Quel Lui/Lei che ci fa vergognare o quel Lui/Lei che vorremmo essere
È il pronome che usano gli scrittori quando raccontano di sé, ma romanzano la storia e ce la raccontano come qualcosa di esterno ed estraneo.
Tanti romanzieri hanno confessato che dietro ai loro personaggi c’erano le loro vite e le loro esperienze, nascoste, celate erano autobiografie senza esserlo.
In letteratura un Lui diventato famoso è il libro di Alberto Moravia dal titolo Io e lui in cui si parla della sessualità personificata in Lui, cioè nella virilità fisiologica, contrapposta a una meta artistica, intellettuale, sociale e civile. La libido prende il sopravvento e ha una voce che ordina e impone scatenando una nevrosi in chiave comica o tragicomica, non lontana dall’assurdo.
Anche nel cinema c’è un esempio di sopraffazione di una Lei nella vita di un personaggio. Il film si intitola, appunto, Lei (2013, su Netflix) in cui il protagonista Joaquin Phoenix si innamora di una voce dell’intelligenza artificiale del suo computer. Lei prende a poco a poco il sopravvento e influisce in modo sempre più invasivo sulla vita di Lui.
Nei due esempi Lui/Lei è qualcosa che agisce anche senza la nostra volontà e prende il sopravvento nelle decisioni, ma che diventa parte dell’io che entra in relazione con un’altra parte di noi stessi.

E per oggi mi fermo qui, concluderò la prossima settimana con i pronomi plurali noi, voi e loro per capire come entrano a pieno diritto nelle scritture autobiografiche.