COPERTINA
“The Passenger” è il titolo originale del film di Michelangelo Antonioni conosciuto in italiano con il nome di “Professione reporter”. “The Passenger” è anche un brano strepitoso interpretato da Iggy Pop.
Questa composizione fu scritta dall’ex-Stooges insieme a David Bowie durante il periodo berlinese (1976-1979) dei due artisti, entrambi lì per disintossicarsi e riavviare il nastro.
David Bowie non è accreditato benché produttore dell’album di Iggy "Lust for Life" (1977) che contiene la traccia di "The Passenger". Co-autore delle musiche del brano è Ricky Gardiner, anche lui a Berlino.
Bowie e Iggy Pop vivevano nello stesso stabile di Berlino Ovest in Hauptstraße 155, nel quartiere bohémien di Schöneberg, dove si ambienta “Cabaret”, il musical e poi film di Bob Fosse.
“The Passenger” è stato reinterpretato innumerevoli volte. Vi proponiamo, come copertina, una delle più riuscite: quella di una figura magnetica del post-punk inglese che non ho mai avuto il piacere di ascoltare dal vivo: Siouxsie con i suoi Banshees.
In coda al post vi proponiamo anche la versione di Iggy Pop non meno intensa e affascinante.
Buon giorno e buon inizio settimana.
Oggi parliamo di tre film inossidabili che compiono un’età per la quale si può usare la parola secolo. Si tratta de “La corazzata Potëmkin” del 1925, “Professione reporter” e “Profondo Rosso”, entrambi del 1975.
I film di Sergei Eisenstein e Dario Argento tornano nelle versioni restaurate in alcune sale. Sta per compiere 50 anni anche il film che ha compromesso la reputazione dell’opera di Eisenstein presso il grande pubblico italiano.
La corazzata Potëmkin
Peccato che sia stato un autore acuto e raffinato come Luciano Salce, seppur faceto, ad avere compiuto l’inconsapevole distruzione della fortuna di un grande film, rendendolo quasi improiettabile al di fuori dei circuiti cinefili.
Questa maledizione si è estesa, come un nefasto effetto domino, ad altre opere classiche e a certune di un cinema d’autore dalla vocazione sperimentale, accomunate dall’epiteto riservato a “La corazzata Potëmkin”.
Sono persuaso che Salce, con quella battuta salace, intendesse non tanto riferirsi al film in sé, quanto mettere in risalto la pochezza culturale e l’angustia mentale del personaggio macchiettistico che aveva portato sullo schermo.
È non è la ribellione né l’urlo marinettiano contro la tradizione, la cultura accademica o l’elitismo dei cineforum che certuni hanno visto in quello sbotto di Fantozzi, osannato nel film con 10 minuti di applausi. È solo beotismo.
Certamente Salce e il suo team (tra cui Giovanni Bertolucci) conoscevano benissimo il valore intrinseco e anche simbolico del film di Eisenstein. Un film che ha contribuito ad elevare il cinema ad “arte di sintesi”.
Con un paragone audace si potrebbe dire che “Potëmkin” rappresenta per il cinema ciò che la “Trinità” di Masaccio/Brunelleschi in Santa Maria Novella è per il linguaggio pittorico del Rinascimento. Un’autentica epifania.
Con la sua durata di poco più di un’ora e la suddivisione in quattro quadri da quindici minuti, “La corazzata Potëmkin” non richiede un particolare sforzo concettuale, ma è un’esperienza emotivamente impegnativa.
Eisenstein, con un ritmo frenetico e turbinoso, conduce lo spettatore in un crescendo di tensione e suspense che culmina, inaspettatamente, in un finale potente, messianico e utopistico.
La musica di accompagnamento nelle versioni di di Shostakovich o dei Pet Shop Boys o del duo rock tedesco Deine Lakaien sostiene efficacemente il ritmo e il dinamismo che il regista ha saputo dare alle scene.
Le masse che si muovono vorticosamente tra le vie di Odessa, sui ponti e i tralicci della corazzata, generano un senso di quasi-vertigine visiva, producendo una sensazione di caduta imminente e rovinosa.
“Stop! Per dirla francamente, siete di fronte a un autore poco gradevole”, confessava il regista di Riga nelle sue memorie. Un destino che hanno patito altri teorici-registi del cinema, come i sovietici e Jean-Luc Godard.
Persino i francesi, pur rispettando Eisenstein, consideravano le sue opere adatte a radicali e socialisti, e inadatte al grande pubblico. Per questo motivo, i produttori lo congedarono a mani vuote quando si recò a Parigi nel 1929.
Questo episodio potrebbe essere un magro conforto a noi italiani, che da cinquant’anni abbiamo relegato “La corazzata Potëmkin” nel canzonatorio, per via di uno sberleffo da avanspettacolo, all’altezza del peggiore Tik-Tok.
The Passenger [Professione reporter]
Spostiamoci da Odessa nella Spagna al crepuscolo del franchismo che è il teatro del lungo epilogo del film di Antonioni. Quasi metà della storia si snoda tra Barcellona e l’Andalusia fino alla plaza de toros di Vera, 90 km da Almería.
È inutile andare a cercare a Vera l’Hotel de la Gloria di fronte alla piazza dei tori, dove Antonioni ha girato il leggendario piano sequenza di 8 minuti. L’hotel fu costruito interamente in cartapesta dalla produzione di Carlo Ponti.
Mi sfugge come il titolo originale “The Passenger” sia diventato “Professione: reporter”, che richiama più un programma televisivo come “Chi l’ha visto?” che un lungometraggio per il grande schermo.
È interessante notare, però, che le altre versioni europee del film come quella tedesca, francese e spagnola mantengano la centralità della figura del reporter. In realtà è la metafora del passeggero il senso dell’opera.
Sebbene David Locke (Jack Nicholson) sia un reporter, la sua professione appare marginale rispetto agli eventi che lo travolgono. In verità, egli è un “passenger”, un individuo in transito, diretto verso una meta indefinita.
È un film di silenzi. Più di 40 minuti sono privi di dialoghi, e quelli presenti sono di una sconcertante ordinarietà in rapporto al dramma che scorre. Vi sono, poi, flashback improvvisi e salti narrativi bruschi, privi di transizioni.
Avvengono spesso attraverso elementi intermedi, finestre, schermi, specchi, creando un effetto di visione indiretta. Si ha la errata percezione di un difetto di regia e montaggio, in realtà, dietro si cela un lavoro meticoloso.
Il tema del film estremizza quello del precedente “Zabriskie Point”, ovvero l’impellente e totalizzante bisogno di libertà fino all’atto estremo, cioè il cambio d’identità quando si presenta un’opportunità casuale e allettante.
Tuttavia, anche questo gesto ultimo non conduce a un porto sicuro, come David Locke spiega chiaramente alla ragazza (Maria Schneider) narrando la parabola del cieco in uno squallido hotel di Almería.
L’inviluppo politico che incarta la vita del reporter, da cui egli cerca di affrancarsi, conferisce una dimensione politica al film, inconsueta per Antonioni. La menzogna e l’illibertà destabilizza la persona.
Il film è paradossalmente divertente in quanto offre dei suggerimenti preziosi a chiunque volesse fare come Locke, ovvero assumere l’identità di un qualsiasi David Robertson.
Innanzitutto, è fondamentale valutare seriamente le relazioni e le attività della persona che si intende sostituire. Potrebbe anche capitare un trafficante d’armi implicato in pericolosi commerci.
È anche consigliabile, nel corso della trasformazione, evitare di noleggiare un mezzo o acquistare auto vistose. Meglio optare per i mezzi pubblici o comprare un’utilitaria come una Ford Fiesta.
È anche sconsigliabile accompagnarsi a persone che si sono già viste altrove. Potrebbero avere una qualche intreccio con la persona della quale si è assunta l’identità. Se proprio si vuole un po’ di conforto, meglio un cane.
È preferibile evitare l’uso di colla liquida per sostituire la foto sul passaporto. È necessario chiudere a chiave la porta della camera d’albergo. Forse è meglio pernottare in case private.
Se poi si ha un o una partner che si impiccia, conviene rinunciare del tutto. Tanto, davvero, non c’è comunque né salvezza né beneficio nella fuga, solo rinnovati problemi e pensieri.
La chiusa del film è enigmatica: chi identifica Rachel Locke nella stanza dell’Hotel de la Gloria, il marito David Locke o David Robertson? È presa anche lei nella logica del doppio?
Antonioni ci lascia interdetti e ci consegna alla splendida scena finale del crepuscolo con l’Espíritu Santo sullo sfondo, una lingua di fuoco che incendia il cielo. Chi sa che cosa vuol dirci il regista. Forse niente.
Profondo rosso
Dall’Andalusia spostiamoci a Torino dove Dario Argento gira un film perfetto dopo avere scritto una sceneggiatura di 300 pagine: “Profondo rosso”. Indovinato tutto: musiche, effetti speciali, ambientazioni esterne e interni.
Vi lavora un équipe eccezionale: Giorgio Gaslini scrive le musiche eseguite dai Gobllin, Carlo Rambaldi con Germano Natali è agli effetti speciali, Luigi Kuveiller dirige la fotografia, Elena Mannini crea i costumi.
C’è poi Torino, una città esoterica, catturata nei suoi scorci liberty e art nouveau, avvolta in una luce particolare che le conferisce un’atmosfera quasi metafisica. “Torino, il luogo dove i miei incubi si sentono a casa”, ha detto Dario Argento.
Nel film ci sono vari influssi, uniti, però, in una sintesi pulita e personale. Si avverte l’eco dell’iconografia di Mario Bava, si riconoscono inquadrature che rimandano a Fritz Lang e si scorgono persino tracce di Buñuel.
C’è anche molto Hitchcock, ovviamente. Lo si ritrova, per esempio, nell’arrampicata di Marc sulla facciata della Villa del bambino urlante, richiamo alla scena del Monte Rushmore di “Intrigo Internazionale”.
Il parallelismo più evidente, rivedendo il film in successione con “Professione: reporter”, è quello con Michelangelo Antonioni, non solo per la scelta di David Hemmings come protagonista, già in ‘Blow-Up’, né per le affinità estetiche.
Esiste una similitudine, quasi spontanea, tra il vagabondare di David Locke tra le sinuose architetture di Gaudí e la frenetica esplorazione notturna di Marc nelle stanze polverose e decadenti di Villa Scott.
Hemmings in “Blow-up”, come pure in “Profondo rosso”, è ossessionato dalla ricerca di un dettaglio sfuggente, una immagine che è impressa, per il Thomas del primo film, nella pellicola e per il Marc del secondo nella mente.
Se in “Blow-Up” l’esserci sfuma nell’incorporeo e nell’illusione, in ‘Profondo rosso’ si materializza in un rosso lucente e puro. Un rosso pulp che stempera la tensione. In fondo, non è sangue, ma tinta.
Come nei telefilm del tenente Colombo, Dario Argento svela immediatamente movente, assassino e contesto, ma lo fa con molta astuzia che richiama il modo più subdolo con il quale Agatha Christie amava depistare il lettore.
In Corpi al sole, Poirot osserva dall’alto di una terrazza la caletta sottostante, con i corpi dei bagnanti al sole. Visti dall’alto, sembrano tutti uguali, ma l’apparenza inganna, come scoprirà il detective belga, depistato da un’illusione visiva.
Allo stesso modo, i dipinti di volti deformi in stile Munch, che Marc scorge nel corridoio della sensitiva, la prima vittima della mannaia, appaiono tali anche nel riflesso dello specchio. Ma c’è qualcosa che non va e Marc inizia a dubitare.
È l’amico Carlo a dargli l’abbrivio: “Certe volte quello che vedi realmente e quello che immagini si mischia nella memoria come un cocktail del quale non riesci più a distinguere i sapori”. E “Profondo rosso” è un cocktail perfetto.
A Torino, meglio prendere una camera d'albergo. Se si prenota un appartamento su Airbnb, potrebbe capitare, come è successo a me, di prenderne uno che ricorda l'abitazione della veggente. E allora, come si fa a prendere sonno?
Buona visione!