COPERTINA
Dal 10 al 26 aprile 2024 la Cinémathèque Française ha dedicato una retrospettiva completa al cinema di Michelangelo Antonioni. Questa bande-annonce, montata con alcune scene significative del suo stile narrativo, è il puntuale tributo della più autorevole istituzione mondiale del cinema al maestro di Ferrara, che in 40 anni di attività ha riscritto il linguaggio visivo dell’arte cinematografica come de Saussure ha fatto per la linguistica moderna.
Buongiorno e buon inizio settimana.
Dopo Bergman, Antonioni. Se per Bergman siamo messi bene con MYmovies ONE che offre lo streaming dell’intera filmografia, con Antonioni (1912-2007), nato 6 anni prima dello svedese, non abbiamo la stessa fortuna.
Michelangelo, …chi?
Purtroppo, i suoi 19 lungometraggi sono sparsi tra vari servizi di streaming. È una situazione particolarmente deludente, che si aggiunge al senso di oblio che oggi sembra essere calato su Antonioni nel suo stesso paese.
Il modo di fare cinema di Antonioni è così profondamente radicato nel linguaggio del cinema contemporaneo che sembra sia sempre esistito, come per generazione spontanea. Questo porta a eludere il principio.
Sul senso dell’opera di Antonioni, citerei le parole di Roland Barthes a chiusura di una lettera aperta al regista del 27 novembre 1992, pubblicata su “L’Unità”, nella quale lo sprona a riprendere l’attività.
… tutta una collettività è d’accordo per riconoscere, ammirare, amare la tua opera poiché sempre si ricomincerà da quella.
Finalmente un museo per Antonioni
Anche la città natale, Ferrara, culturalmente vivace e ricettiva, ha tardato troppo ad aprire uno spazio adeguato alla figura e all’opera di questo grande maestro del cinema. La vicina Rimini ha fatto molto meglio con Fellini.
Tuttavia, da giugno 2024, nel rinascimentale Palazzo Massari di Ferrara, ha aperto i battenti lo “Spazio Antonioni”, un progetto museale curato da Dominique Païni, già direttore della Cinémathèque Française.
Il percorso espositivo mostra oltre 47.000 pezzi dell’Archivio Antonioni, donato dal regista e dalla moglie al Comune di Ferrara. Ci sono anche delle salette immersive dove vedere i film del regista.
Ferrara di Antonioni e Rimini di Fellini, certo! Ma c’è anche Sant’Arcangelo di Romagna. Qui un piccolo ma intenso museo ricorda un altro protagonista della stagione d’oro del cinema italiano: Tonino Guerra (1920-2012).
Il romagnolo ha collaborato sia con Fellini (“Amarcord”, “E la nave va” e “Ginger e Fred”) sia con Antonioni, per ben 8 dei 19 film del regista. In 150 chilometri troviamo un concentrato unico di talento, creatività e originalità.
Dalla Cina con verità
Nel 1972, Zhou Enlai, il premier cinese, invitò Antonioni a realizzare un documentario sulla Cina, concedendo a lui e alla sua troupe una libertà di movimento senza precedenti per un intellettuale dell’epoca.
In sei mesi nacque “Chung Kuo, Cina”, un’opera che è una testimonianza visiva non solo sulla Cina, ma soprattutto sui cinesi, catturati con grande verità dallo sguardo critico ed estetizzante di Antonioni.
Tuttavia, l’opera non incontrò il favore di Mao. Nel 1974, “Il Quotidiano del Popolo” condannò duramente il film, definendolo “deplorevole, calunniatorio, diffamatorio, malizioso, ostile, maligno, riprovevole e offensivo”.
Probabilmente, Mao si aspettava da un regista di fama mondiale, erroneamente considerato comunista dopo “Zabriskie Point”, una esposizione più benevola e solidale dei suoi sforzi di trasformazione del paese.
Mao non aveva scelto la persona giusta per questo scopo. Antonioni non era interessato a compiacere il pubblico o il potere, né a seguire le mode o le ideologie, né annacquare la propria autonomia creativa.
Un’influenza globale
In realtà “Chung Kuo, Cina”, e più in generale il cinema di Antonioni, ha avuto una forte influenza sull’intera cinematografia asiatica che si può rintracciare nelle opere di molti registi di quell’area.
Anche l’“Hollywood Renaissance” degli anni ’70 e ’80 deve molto ad Antonioni, soprattutto per le sue invenzioni formali e stilistiche. Tuttavia, il rapporto di Antonioni con l’America si ruppe con “Zabriskie Point”.
Scorsese, Coppola, Mallick, Brian De Palma, Soderbergh, Gus Van Sant, Vincent Gallo e Ridley Scott devono molto al suo lavoro. Troviamo tanto Antonioni anche nel cinema dell’Europa Orientale.
Basterebbe pensare a “Stalker”, forse il più bel film di Andrej Tarkovskij, dove si sente proprio respirare Antonioni, ma anche all’ambiente e ai personaggi de “La ragazza del bagno pubblico” di Jerzy Skolimowski.
Pink Floyd, no grazie
Dicevamo sopra dell’impossibilità quasi fisica del regista ferrarese di scendere a compromessi su qualsiasi aspetto del suo lavoro che lo portava a ricercare un’autonomia e un controllo quasi maniacali.
Per la colonna sonora di “Zabriskie Point”, Antonioni chiamò a Roma i Pink Floyd, che incisero ben 13 ore di musica straordinaria. Tuttavia il regista utilizzò solo un brano: i pezzi non rispecchiavano lo spirito onirico del film.
Infine, è noto l’amore sconfinato della critica e del pubblico francese per il regista. Abbiamo citato la lettera di Roland Barthes, ma potremmo anche citare Godard e tanti altri.
Ed è proprio con le parole dell’equipe critica della Cinémathèque Française che vi proponiamo, per questa estate, 5 film di Antonioni. Tutti da vedere, 2 ore di cinema indispendabile.
L’AVVENTURA
Italia-Francia / 1959 / 144 min
regia di Michelangelo Antonioni
soggetto di Michelangelo Antonioni
sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Elio Bartolini
fotografia di Aldo Scavarda
musiche di Giovanni Fusco
con Gabriele Ferzetti (Sandro); Monica Vitti (Claudia); Lea Massari (Anna); Lelio Luttazzi (Raimondo)
Premio della giuria a Michelangelo Antonioni al Festival di Cannes
“L’avventura” rappresenta un’audace sfida alle convenzioni narrative del cinema, un “giallo al contrario” come lo definì lo stesso Antonioni. Si tratta di un poema senza tempo che esplora la “malattia dei sentimenti” e la complessità dell’esistenza umana. La misteriosa scomparsa di Anna avviene durante una gita in barca con il fidanzato e un’amica alle isole Eolie, nella suggestiva Panarea. Questa sparizione diviene la metafora del senso di perdita fisica e psicologica, indissolubilmente intrecciate. Antonioni spinge i confini del cinema verso il non detto, creando atmosfere di immensità, vuoto e fuori campo. La simbologia dei paesaggi gioca un ruolo fondamentale, esaltata da composizioni decisamente moderniste. Al di là del suo valore critico, “L’avventura” segna un momento cruciale nella carriera di Antonioni, consacrandolo come il creatore di un nuovo linguaggio visivo, ormai lontano dal neorealismo.
DESERTO ROSSO
Italia-Francia / 1963 / 113 min
regia di Michelangelo Antonioni
soggetto di Michelangelo Antonioni
sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra
fotografia di Carlo Di Palma
musiche di Giovanni Fusco, Vittorio Gelmetti
con Monica Vitti (Giuliana); Richard Harris (Corrado Zeller); Carlo Chionetti (Ugo); Xenia Valderi (Linda)
Leone d’oro al miglior film nel 1964 a Michelangelo Antonioni al Festival di Venezia
“Deserto Rosso” è un’immersione vertiginosa nella psiche tormentata di Giuliana, una donna coinvolta in un’avventura extraconiugale mentre sullo sfondo si staglia una domanda angosciosa sul futuro dell’umanità. Antonioni dipinge un’Italia corrosa dall’industrializzazione, dove paesaggi spettrali e atmosfere asfissianti riflettono la condizione alienante dell’uomo moderno.
Ogni inquadratura è un’opera d’arte grezza, un omaggio ai maestri della pittura come Mondrian, Matta e Morandi. La sequenza che rievoca il “Polittico di Brera” di Piero della Francesca, pittore prediletto di Antonioni, è un esempio magistrale della sua poetica visiva.
“Deserto Rosso”, primo film a colori del regista, rappresenta la sublime realizzazione del suo credo: “Voglio dipingere la pellicola come si dipinge una tela, inventare relazioni tra i colori”.
Tuttavia, Antonioni rifiuta interpretazioni semplicistiche: “È troppo semplicistico, come molti hanno fatto, dire che accuso questo mondo industrializzato, disumano, dove l’individuo è schiacciato e condotto alla nevrosi. La mia intenzione, al contrario, era tradurre la bellezza di questo mondo dove anche le fabbriche possono essere molto belle.”
BLOW-UP
Gran Bretagna-Italia-Stati Uniti / 1966 / 110 min
regia di Michelangelo Antonioni
soggetto di Michelangelo Antonioni, ispirato al racconto I figli della Vergine di Julio Cortázar
sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Edward Bond
fotografia di Carlo Di Palma
musiche di Herbie Hancock
con David Hemmings (Thomas); Vanessa Redgrave (Jane); Sarah Miles (Patricia); John Castle (Bill, il pittore); Jane Birkin (la ragazza bionda)
Palma d’oro a Michelangelo Antonioni al Festival di Cannes; 2 candidature all’Oscar, 1 al Golden Globe
Nella pulsante Londra degli anni ’60, Thomas, fotografo di moda blasé e annoiato dalla monotonia della sua vita, si ritrova catapultato in un enigma sconvolgente. Sviluppando casualmente un rullino di pellicola, scopre di aver ripreso un omicidio passato inosservato ai suoi occhi durante una sessione fotografica in un parco. Si viene così immersi in un’atmosfera carica di tensione e mistero, dove la realtà si confonde con l’illusione e la verità si nasconde nella camera oscura. “Blow-Up” è un film-enigma.
Attraverso un montaggio frenetico e dinamico, che riflette l’energia travolgente della Swinging London, Antonioni ci porta in un viaggio attraverso le subculture giovanili dell’epoca, tra feste sfrenate, musica psichedelica e atmosfere bohémien. La colonna sonora composta da Herbie Hancock e The Yardbirds amplifica il senso di euforia e disorientamento, creando un’esperienza sensoriale unica.
Ma “Blow-Up” non è solo un ritratto di un’epoca, è anche una profonda riflessione sul ruolo del fotografo come testimone della realtà. Thomas, inizialmente ossessionato dall’idea di svelare il mistero dell’omicidio e di appropriarsi della verità attraverso le sue immagini, si ritrova ben presto inghiottito da una spirale di dubbi e incertezze. Le sue fotografie, inizialmente prove inconfutabili, diventano via via più ambigue e indecifrabili, mettendo in discussione la sua stessa percezione della realtà.
ZABRISKIE POINT
Stati Uniti / 1970 / 112 min
regia di Michelangelo Antonioni
soggetto di Michelangelo Antonioni
sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Sam Shepard, Clare Peploe, Fred Gardner
fotografia di Alfio Contini
musiche di Pink Floyd, Jerry Garcia
con Mark Frechette (Mark); Daria Halprin (Daria); Paul Fix (Proprietario del bar); G.D. Spradlin (Socio dell’avvocato Lee)
Nel tumultoso 1970, scosso da rivolte studentesche e tensioni sociali, Antonioni dirige un film onirico e surreale. Protagonista è un giovane, John, costretto a fuggire dal suo campus dopo una rivolta. Si rifugia nel deserto californiano dove incontra Daria, una ragazza libera e anticonformista, con cui intraprende un’intensa relazione segnata dall’amore, dalla spensieratezza e dalla ricerca di un’alternativa alla società opprimente.
Antonioni ci immerge nella bellezza selvaggia del deserto californiano, dove paesaggi grandiosi e panorami incontaminati fanno da sfondo alla fuga dei due protagonisti.
Ma “Zabriskie Point” non è solo una fuga romantica. Antonioni coglie l’occasione per lanciare un’acuta critica alla società americana del tempo, mostrando i suoi lati oscuri e corrotti, dominati dal consumismo, dall’alienazione e dalla violenza. La visione apocalittica di una società in disfacimento si contrappone alla ricerca di libertà e autenticità dei due giovani protagonisti, che rappresentano un barlume di speranza in un mondo dominato dal nichilismo.
“Zabriskie Point” rappresenta una parentesi unica nella filmografia di Antonioni, un’opera che si discosta dai suoi film più celebri per il suo stile più leggero e onirico. Tuttavia, il film mantiene intatti i temi cari al regista, come l’incomunicabilità, l’alienazione e la ricerca di senso, esplorandoli con una sensibilità poetica e visionaria.
PROFESSIONE REPORTER
(The Passenger)
Italia-Francia-Spagna / 1973 / 126 min
regia di Michelangelo Antonioni
soggetto di Mark Peploe
sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Mark Peploe, Enrico Sannia Gardner
fotografia di Luciano Tovoli
musiche di Ivan Vandor
con Jack Nicholson (David Locke); Maria Schneider (ragazza); Steven Berkoff (Stephen)
Girato nella polvere di paesaggi isolati e desolati “Professione: reporter” esplora il tema del doppio e l’arte della fuga. Il protagonista, Jack Nicholson nei panni di David Locke, rappresenta un’emanazione simbolica del cineasta stesso. La sua ricerca di libertà lo conduce in un labirinto metafisico, dove assume l’identità di un uomo morto che gli somiglia, stringendo un patto faustiano che ne sconvolge l’esistenza.
Antonioni ci guida attraverso un “film d’avventura intimista”, dove i temi contemporanei si intrecciano con la dimensione metafisica della storia. La figura di Locke/Robertson si trasforma in un’allegoria dell’uomo moderno, alla ricerca di un’identità autentica in un mondo alienante e privo di punti di riferimento. La sua fuga diventa un viaggio introspettivo, un’esplorazione profonda dei lati oscuri dell’animo umano.
Il film è costellato di sperimentazioni cinematografiche innovative, come la sequenza finale, un vero e proprio capolavoro tecnico. Antonioni utilizza lunghi piani sequenza e riprese aeree per creare un’atmosfera di sospensione e di mistero, amplificando l’impatto emotivo della storia.
“Professione: reporter” non è solo un film, è una lezione di vita e di cinema. Ci invita a riflettere sulla natura dell’identità, sulla fragilità dell’esistenza e sull’eterna ricerca di senso che accomuna l’essere umano.