COPERTINA
Steve Jobs nella posizione del loto con il Macintosh 128K. Siamo nel gennaio del 1984 nella sua abitazione, la Jackling House, a Woodside Hills, 30 km da Cupertino. L'abitazione non aveva mobili, Jobs non sapeva decidersi.
La foto di Norman Seeff, autografata, è disponibile all’acquisto presso Sotheby’s al prezzo di 7000 dollari. Questo scatto è stato utilizzato dal magazine “Time” per la copertina del numero del 6 ottobre 2011.
Buongiorno e buon inizio settimana.
Per 40 anni, quasi ogni giorno, mi ci sono seduto di fronte. E il 2024 è il quarantesimo anche per il Macintosh. Il 24 gennaio 1984 la Apple iniziò le vendite del Macintosh 128K M0001.
Quel Mac costò il posto a Steve Jobs. L’essere buttato fuori dalla Apple per via del Mac 128 fu la cosa migliore che gli poteva accadere, come poi ebbe a dire ai laureati di Stanford.
Il Macintosh 128K
Ora non ce l’ho più, però il 128K ce l’ha il mio amico Stefano B. Ce l’aveva anche Vittorio B. che è stato sindaco di Empoli, una cittadina sempre all’avanguardia. Adesso a Empoli c’è anche un santuario-rifugio per gli animali da macello.
Oggi quel 128K di Vittorio, insieme a tanta altra roba pregiata, è al Museo degli Strumenti per il Calcolo di Pisa nella splendida cornice della Cittadella medicea che guarda l’Arno.
Jobs sarebbe contento di saperlo lì. Il suo inviato in Italia all’epoca di NeXT, Paul Vais, recitava a memoria, in un italiano impeccabile, alcuni versi del canto del Conte Ugolino “La bocca sollevò dal…”. C’è molta Italia nella storia della Apple.
Un giorno…
In una intervista al magazine "Rolling Stone" Jobs disse: “Si può discutere quanto tempo ci vorrà, si può discutere chi saranno i vincitori e i vinti, ma non c’è dubbio che un giorno ogni computer funzionerà così”.
Parlava di quello che aveva visto allo Xerox PARC di Palo Alto e che lui, insieme a un team di 100 persone, aveva trasportato e incredibilmente migliorato nel Mac. Tutt’oggi siamo in quel perimetro.
Lo Steve Jobs Archive per il 40mo del Mac ha diffuso alla membership una memoria che condivido volentieri con voi.
Nel gennaio del 1984 il fotografo Norman Seeff si presentò negli uffici di Apple senza sapere cosa aspettarsi. Il direttore di “Rolling Stone” gli aveva solo detto che si trattava di una “strana azienda” piena di hippie che facevano computer.
Insieme al giornalista Steven Levy doveva coprire il lancio di un nuovo e un po’ misterioso prodotto, una nuova macchina chiamata Macintosh.
Levy, 10 anni dopo, avrebbe dato alle stampe un libro, Insanely Great: The Life and Times of Macintosh, the Computer That Changed Everything. Non l’ho mai trovato in italiano. Chi sa se è stato mai tradotto?
Ecco come il duo del “Rolling Stone” ricorda quella visita ai locali e al team Macintosh.
Buona lettura!
Una comune
L’atmosfera negli uffici era lontana da quella che si poteva trovare nella corporate America degli anni 80. Nessuno indossava un completo o aveva un taglio di capelli “normale”.
[Gli uffici erano in un edificio staccato nel complesso di Cupertino dell’allora sede Apple, che non era ancora l’Infinite Loop, inaugurato nel 1993. Sull’edificio del team Mac sventolava la bandiera pirata.]
Un costoso pianoforte Bӧsendorfer troneggiava nell’atrio; il personale spesso lo suonava durante le pause. Vicino c’era un lettore CD Sony di prima generazione collegato a un paio di altoparlanti giganti.
C’erano monopattini. Animali domestici. Bambini. Tutti indossavano jeans; alcuni addirittura erano a piedi nudi.
Il tutto sembrava una comune, tutto era vivace.
Insanely great
Quel giorno la gente del Mac aveva buoni motivi per essere esuberante. Il Macintosh era il primo personal computer di massa veramente user-friendly. Ora si trovavano a pochi giorni dal lancio.
Era una plurinseminazione. Vi avevano contribuito in modo determinante l’ex manager di Apple Jef Raskin, i ricercatori dello Xerox PARC e dello Stanford Research Institute.
Un team giovane e anticonformista aveva lavorato incessantemente per creare un computer semplice e sofisticato, progettato per stimolare la creatività e anche per migliorare la produttività individuale.
Un piccolo gruppo stava scherzando vicino alla postazione della designer Susan Kare. Era il team dello sviluppo software. Impugnai la mia Nikon e inizia a scattare a raffica.
Il gruppo si fece coinvolgere. Con le mani poggiate sulle spalle e le ginocchia sulla schiena, le persone si impilarono l’una sull’altra a formare una piramide umana.
Undici membri del team software del Macintosh (e una neonata) disposti in una piramide umana, 1984. Fotografia di Norman Seeff. Dall’alto in basso, da sinistra: Rony Sebok, Susan Kare, Andy Hertzfeld, Bill Atkinson, Owen Densmore, Jerome Coonen, Bruce Horn, Steve Capps, Larry Kenyon, Donn Denman, Tracie Kenyon (la neonata) e Patti Kenyon.
Una piramide di cervelli
“Sono la più leggera, quindi mi sono messa in cima”, disse Rony Sebok. Rony si era unita al team Macintosh l’estate precedente come ingegnera del software.
Non era un gesto naïf fare quella piramide: erano tutte persone mature anche se erano giovani. Tutto il clima era informale, allegro.
In cima al mucchio accanto a Sebok c’era Kare, con una felpa grigia e jeans: aveva progettato i font e le icone del sistema e il sorridente logo che appare all’avvio del Mac. Quell’“Hello/Ciao” dava alla macchina un aspetto umano.
C’era Bill Atkinson al centro, con il suo maglione a righe, gli occhiali e i baffi: l’interfaccia grafica che aveva programmato era fondamentale per rendere il Macintosh così facile da usare.
Accanto a lui, con una vivace maglietta rossa, c’era Andy Hertzfeld, uno degli architetti principali del nuovo sistema operativo.
La piramide sembrava una perfetta sintesi dell’intero team Macintosh: individui talentuosi che si univano per costruire qualcosa di più potente di quanto ognuno di loro potesse fare da solo.
Il gruppo continuò a scherzare finché la piramide collassò e tutti iniziarono a ridere.
[Alcuni di loro avrebbero poi seguito Steve Jobs alla NeXT nel 1986. Altri, come Atkinson sarebbero rimasti alla Apple. Altri ancora, come Hertzfeld, avrebbero intrapreso carriere indipendenti.]
Continuai a scattare.
Steve Jobs, che aveva coordinato il team Macintosh dal 1981, assisteva alla scena. Quando il gruppo cadde a terra, si unì a loro per un nuovo scatto.
Tredici membri del team software del Macintosh, una neonata e Steve Jobs, 1984. Fotografia di Norman Seeff.
Da sinistra: Randy Wigginton, Jerome Coonen, Donn Denman, Rony Sebok, Andy Hertzfeld, Bruce Horn, Bill Atkinson, Susan Kare, Owen Densmore, Steve Capps, Larry Kenyon, Patti Kenyon, Tracie Kenyon )la neonata) e Steve Jobs.
Sotto il suo occhio
Steve sapeva che un prodotto incorpora e trasmette le idee e le intenzioni delle persone che l’hanno creato.
E sapeva che questo team di ingegneri, designer e developer poteva creare una macchina per le persone comuni, “un computer per il resto di noi”, un elettrodomestico.
Solo gente che univa tecnologia e arti liberali, amava e praticava l’arte, la fotografia, la musica, la poesia poteva fare un’impresa del genere con le risorse del tempo.
In un momento in cui i computer erano complessi e difficili da usare, era un obiettivo radicale. Per raggiungerlo, Steve incoraggiava il team e lo proteggeva; lo spingeva anche duramente e condivideva le critiche.
Alla fine li invitò a firmare il loro lavoro come artisti, ricordandogli però che stavano costruendo uno strumento per gli altri. “In cinque anni entreremo in ogni classe, in ogni ufficio e in ogni casa", promise.
[Sulla scocca interna del Macintosh 128K, 512K, Plus ed SE ci sono le firme di coloro che li hanno sviluppati. Qui la storia della cerimonia della firma raccontata da Andy Hertzfeld.]
Un’altra storia
Qualche settimana dopo la visita di Sheef e Levy, il Macintosh fu annunciato al mondo. La strada davanti non sarebbe stata semplice né per il prodotto, né per il gruppo che lo aveva realizzato, né per lo stesso Steve.
Ma questa è un’altra storia che vi invito a vedere in Jobs (Prime Video), il film del 2013 diretto da Joshua Michael Stern e interpretato da Ashton Kutcher. Non è un buon film, ma come documento merita il tempo che richiede.
Buona visione!
Grande Ada!!!
Io ce l'ho, l'ho trovato anni fa in un mercatino e l'ho regalato a mia figlio che lo tiene come soprammobile. Curiosa la storia delle firme... Grazie Mario!
Ada