
Buongiorno e buon inizio settimana. Il mondo non è binario. Sembra che percepiamo 900 sfumature di grigio, molto più di 50 e di 256. Ed è intorno a questo fantasma della fluidità che oggi ci aggireremo, sapendo di incontrare qualche sbadiglio.
Con questa NL voglio invitarvi a leggere un intervento di Crystal Melisa Corrieri, 22 anni, che studia scienze politiche a Firenze.
Crystal Melisa ha fatto uno stage da noi, previsto dal suo curriculum di studi, e abbiamo avuto il piacere reciproco di scambiarci qualche discorso.
La generazione Z
Molto forte è l’impegno sociale di Crystal: legge molto, si informa seriamente, partecipa alle iniziative dei coetanei nell’università ed è attivista del movimento transfemminista (su Wikipedia è spiegato bene).
Ama scrivere: un suo racconto ha vinto il concorso “We are back” indetto dalla Scuola di scienza politica dell’Università di Firenze per la fine del lockdown. Potete leggerlo qui.
Ho fatto vedere a Crystal Melisa un articolo del “New York Times” del giornalista Michael Powell e lo ho chiesto di commentarlo. L’articolo discute, su due intere colonne, la tendenza di alcuni movimenti progressisti americani a non utilizzare la parola “donna” e nessuna terminologia cisgender nel dibattito sui diritti civili. L’articolo di Powell, in traduzione italiana, si può leggere qui.
La “messa al bando della parola donna” sta creando non poco imbarazzo in alcune componenti storiche del movimento femminista stesso e soprattutto alla sua sponda politico-istituzionale, il partito democratico e l’amministrazione Biden
Perché il linguaggio ha una così grande importanza politica per i movimenti di avanguardia? A Wittgenstein sarebbe parso ovvio. A me, meno. Ho chiesto quindi a Crystal Melisa di spiegarmelo. Qui di seguito la sua risposta che condivido volentieri con voi.
Buona lettura!
La parola donna
Micheal Powell, nel suo articolo La scomparsa della parola “donna” sul “New York Times”, ci restituisce uno sguardo preciso sulla complessa discussione che riguarda la scelta del linguaggio nel campo delle lotte transfemministe.
In particolare, ci fa riflettere sul lessico utilizzato nei discorsi sull’aborto, un tema caldo negli Stati Uniti dopo la nota sentenza della Corte suprema. In questi contesti, la parola “donna” è stata sostituita, nell’ambito di un linguaggio neutro dal punto di vista del genere, ad esempio con l’acronimo AFAB, cioè Assigned Female At Birth (femmina assegnata alla nascita), oppure con la dicitura “persone con utero” (che è preferibile, in quanto non pone l’accento sul genere).
Questi accorgimenti linguistici non cancellano assolutamente le donne dal dibattito ed includono invece categorie che ne sono sempre state escluse, ad esempio le persone transgender e non-binarie.
Il linguaggio è protagonista
Per quanto possa sembrare di secondaria importanza, in realtà il linguaggio riveste un ruolo da protagonista. Vediamo perché.
La lingua è una delle più potenti tecnologie mai inventate dall’essere umano perché ci permette di vivere e costruire il nostro mondo. Infatti, secondo la teoria di Sapir-Whorf (la cosiddetta ipotesi della relatività linguistica), la struttura di una lingua condiziona il modo in cui l’individuo comprende e percepisce la realtà.
A questo proposito, numerosi studi hanno mostrato le differenze nel modo di pensare esistenti tra parlanti di lingue diverse.
L’indonesiano, ad esempio, non possiede pronomi personali specifici legati ai generi, ovvero egli, ella ed esso. Lera Boroditsky, psicologa cognitiva, racconta il dialogo con una persona di madrelingua indonesiana.
Parlavano in indonesiano di una persona amica della Boroditsky e il suo interlocutore, che non conosceva questa persona, le poneva ogni genere di domanda su di lei: solo alla ventunesima domanda le aveva chiesto se questa persona fosse un uomo o una donna.
Questo significa che il suo interlocutore era riuscito a immaginare per tutta la conversazione una persona senza un genere definito, cosa che sarebbe impossibile per un soggetto di madrelingua italiana per il semplice fatto che l’italiano possiede i generi grammaticali (e solo due) e di conseguenza noi siamo abituati ad immaginare una realtà binaria.
L’interdipendenza tra pensiero e linguaggio
Le studiose Dagmar Stahlberg, Sabine Sczesny e Friederike Braun, invece, hanno mostrato quanto influisca una lingua inclusiva sul modo di pensare con il seguente esperimento. Hanno sottoposto a tre diversi gruppi di persone altrettanti questionari che si differenziavano unicamente per l’indicazione di genere.
Ai membri del primo gruppo veniva domandato quali fossero i loro eroi romanzeschi preferiti, a quelli del secondo gruppo era chiesto quali fossero le loro figure romanzesche preferite e a quelli del terzo gruppo quale fosse il/la loro eroe/ina romanzesco/a preferito/a. Le eroine venivano citate nettamente di più dai membri di questi ultimi due gruppi.
Dunque, l’interdipendenza tra pensiero e linguaggio rende chiaro che la diversità delle lingue non è una diversità di suoni e di segni, ma di modi di percepire il mondo. E, se la lingua struttura il mondo in cui viviamo, allora possiamo cambiare il mondo anche (ma non solo) attraverso la lingua.
Saper riconoscere e superare il privilegio
Per muoverci in questa direzione, dobbiamo superare l’idea che la lingua sia intoccabile e sacra. Cambiare le proprie abitudini linguistiche è scomodo e faticoso, ma non possiamo ignorare il potere che abbiamo. Ogni nostro atto linguistico (e non) può riproporre le gerarchie di privilegi, oppure destrutturare i suoi confini per costruire un nuovo spazio più inclusivo.
Tuttavia, il privilegio è spesso invisibile a chi lo possiede (e in certi casi è difficile ammettere di essere privilegiati), quindi la prima cosa da fare è ascoltare le persone e le comunità marginalizzate che sono coinvolte in prima persona in una determinata discussione.
Questo implica anche riservare loro più spazi alle conferenze, sui giornali, in televisione. Per visualizzare un’immagine di questo discorso, potete cercare online “the privilege wheel”, che mostra come quanto più ci allontaniamo dal centro in cui sono riuniti quei fattori considerati standard e tanto più rischiamo la discriminazione.
In secondo luogo, è importante ricordare che non si tratta mai di togliere qualcosa, ma sempre di aggiungere. Le cose esistono anche se non le nominiamo, ma finché non assegniamo loro un nome non possiamo parlarne e uno dei modi per rendere attuali e concrete le cose è proprio parlarne. Questo spiega la recente necessità di riempire i vuoti linguistici.
Il veicolo linguaggio
Includere nelle conversazioni quotidiane e nei discorsi pubblici termini come non-binario, transgender, agender, o queer, serve per restituire una giusta rappresentazione linguistica a chi non era mai stato considerato. Queste apparenti complicazioni linguistiche possono in realtà anche aiutarci a riconoscere qualcosa che si sentiva e che non si riusciva a circoscrivere.
Tuttavia, la funzione più importante del linguaggio inclusivo è quella di farci riflettere e attirare l’attenzione sui temi sociali e politici della lotta transfemminista.
Il mio invito
In definitiva, il mio invito è quello di esplorare le nuove proposte linguistiche (e non) e cercare di approfondire ogni argomento, possibilmente attraverso fonti dirette, prima di prendere una posizione.
Per la mia generazione (generazione Z) e per le generazioni successive, è molto semplice inserirsi negli ambienti di dibattito soprattutto attraverso i social network come Instagram e TikTok, ma riconosco che può non essere altrettanto semplice, ad esempio, per i miei genitori.
Fa anche più paura mettersi in discussione dopo aver creduto in qualcosa per tutta la vita, ma non si diventa transfemministi da un giorno all’altro. Per questi motivi, ho raccolto una breve ed essenziale bibliografia dalla quale potrete cominciare il vostro percorso di conoscenza del transfemminismo:
Adichie, C. N., (2015), Dovremmo essere tutti femministi, Torino: Einaudi.
Gheno, V., (2021), Femminili singolari, Firenze: Effequ.
Gümüşay, K., (2021), Lingua e essere, Roma: Fandango Libri.
Manera, M., (2021), La lingua che cambia, Milano: Eris Edizioni.
Crystal Melisa ha approfondito questi argomenti in un saggio breve che potete leggere qui.
Prima di andare
Persona. Nell’attesa che si compia la riforma linguistica auspicata da Crystal Melisa, e ci vorranno degli anni forse più di quelli che sono stati necessari alle suffragette per ottenere il diritto di voto alle “donne”, possiamo già introdurre una piccola riforma nel nostro linguaggio con una parola potentissima, da quel punto di vista: persona. Una parola che suona come un accordo di Beethoven. La parola persona designa qualsiasi essere senziente, anche una pietra… se lo fosse. Con persona siamo al di là dell’umano e oltre la galassia antropocentrica. Torniamo al nostro Giordano Bruno, cancelliamo Campo de’ Fiori (non nel senso di “cancel culture”.
Persona è anche uno dei più enigmatici e sperimentali film di Ingmar Bergman, recentemente restaurato (1966, su Prime Video). Qui persona viene, però, usato nell’accezione di Gustav Jung, cioè maschera. Film perfetto in una domenica oziosa per risvegliare l’intelligenza.
Pamela Paul. Tra le varie cose che ho letto sulla sentenza della Corte suprema americana, quella che più mi è rimasta addosso è una riflessione di Pamela Paul, giornalista del “New York Times”, responsabile della sezione libri del giornale e conduttrice del podcast Book Review. Ha scritto molto sulla genitorialità e la famiglia ed è anche autrice di libri per bambini. Pamela ha tre figli. Racconta come li ha partoriti e perché avere un figlio non significa “solo” metterlo al mondo.
Siamo in Borgen? Il governo danese guidato da Mette Frederiksen potrebbe cadere dopo che la commissione parlamentare d’inchiesta che indaga sull’abbattimento di oltre 17 milioni di visoni, per l’erroneo timore che gli animali potessero diffondere nuove varianti del Covid 19, ha concluso che l'ufficio del primo ministro "ha agito in modo riprovevole". Oltre alla strage degli innocenti (con immagini inguardabili), l’atto del governo è costato 3 miliardi di euro ai contribuenti danesi pagati per risarcire 12mila allevatori. Il parlamento potrebbe sfiduciare Frederiksen e incriminarla. Sarebbe un bel gesto per la democrazia più perfetta del mondo La cosa bella è, però, che solo 15 allevatori su 12mila torneranno al loro precedente mestiere. Si può fare di meglio nella vita che allevare visoni da pelliccia.
L’ultima parola al sidolizzatore. Il nostro è tornato rilassato dalle vacanze e ci lascia questo commento. Sì, con appositi strumenti, è possibile arrampicarsi senza timore sugli specchi. Se saranno stati ben lucidati e privati di ogni impurità, sarà abbastanza facile. Il Sidol aiuta senza dubbio. Mi manca tuttavia la fede in un risultato.
Ricevo questo commento che condivido volentieri qui sotto.
Caro Mario,
1. Non voglio mai essere titolata ‘essere con utero’! Chiamiamo gli uomini ‘esseri con pene’? No davvero!
2. Ancora non mi ha saputo spiegare nessuno come mi devo rivolgere a un essere umano ‘diverso’.
3. Nella bibliografia si trova Adichie, scrittrice apprezzatissima, accanto a Gümüsay. Una pseudo femminista la quale divulga idee islamiste à la Erdogan. Si batte per potere portare ‘il velo’ sempre e dappertutto.
L’ultima lettera contiene troppe cose non riflettute, superficiali, insomma non all altezza del dibattito.