
Buongiorno e buon inizio della settimana dell’Ottava di Pasqua.
Oggi vogliamo ricordare Ryuichi Sakamoto, scomparso in questi giorni, con un episodio del 2018 che pone in evidenza la sua empatia come persona nonché la sua grande cultura musicale.
Riguarda la nascita di una playlist molto speciale, la Kajitsu playlist. Se volete, potete ascoltarla subito, qui. Calma, però. Sono 50 brani piuttosto impegnativi.
Forse prima è meglio capire di che cosa si tratta.
Il rifiuto del conformismo
Ryuichi Sakamoto è stato uno degli artisti contemporanei più originali, brillanti, eclettici e sperimentatori. Un artista che si è sempre sottratto al conformismo e non ha mai smesso di interrogarsi sul senso delle cose.
Recentemente si è rifiutato di comporre l’inno delle Olimpiadi di Tokyo (ne aveva già composto uno per quelle di Barcellona) per protesta nei confronti del governo giapponese per il modo in cui stava fronteggiando la pandemia. Come ultimo atto della sua vita, ha indirizzato una lettera alle autorità giapponesi per fermare l’abbattimento programmato di centinaia di alberi.
A Sakamoto si deve soprattutto una delle più riuscite sintesi musicali tra la tradizione orientale e occidentale. Due culture musicali che il compositore giapponese conosceva alla perfezione ed esplorava con pari destrezza.
Un artista poliedrico
Il compositore recentemente scomparso è un modello di riferimento tanto come musicista quanto come ascoltatore. È stato fra i primi ad adottare le nuove tecnologie. Alla fine degli anni ’70 fondò il trio elettropop Yellow Magic Orchestra, che divenne il gruppo rock di maggiore successo in Giappone.
Sakamoto ha collaborato con i Kraftwerk, gruppo per eccellenza della musica elettronica, oltre che con David Sylvian, Iggy Pop e altri artisti, immettendo molto sperimentalismo e sincretismo nelle sue composizioni.
Il maestro giapponese ha infatti creato e prodotto musica che potesse essere eseguita negli ambienti e nelle occasioni più varie: sale da ballo o da concerto, nei film, ma anche nei videogiochi e perfino nelle suonerie dei telefoni. Ha composto musica per iniziative ed eventi ambientali e politici.
Nel cinema
Ha interpretato il giovane capitano Yoni che sviluppa un morboso interesse per l’ufficiale neozelandese Jack Celliers, impersonato da David Bowie, in Furyo (1983, Prime Video) un film di Nagisa Ōshima di cui compose anche le musiche, tra le quali il famoso pezzo al sintetizzatore, qui sotto in una esecuzione dello stesso Sakamoto al pianoforte.
Poi sono arrivate le colonne sonore di film di Bernardo Bertolucci quali L’ultimo imperatore (1987, Prime Video e NowTV), Il tè nel deserto (1990), Piccolo Buddha (1993).
Bertolucci era molto esigente con lui. Si dice che lo spronasse a comporre musica più passionale e che gli abbia fatto riscrivere alcuni brani al volo durante le sessioni di registrazione con un’orchestra di 40 persone. L’ultimo imperatore portò a Sakamoto un Oscar nel 1988.
Nel documentario del 2018 Coda di Stephen Nomura Schible possiamo farci un’idea dell’incredibile talento e versatilità del poliedrico musicista giapponese.
Algoritmi e artisti
Sakamoto ha dato, indirettamente, un contributo importante all’acceso dibattito che sta caratterizzando la conversazione pubblica di questi mesi. Mi riferisco al rapporto di valore tra l’intelligenza artificiale (AI) e quella biologica nel campo della creatività e, in questo caso, della musica.
Ci sono ambiti nei quali si preferisce far lavorare algoritmi di AI piuttosto che persone esperte. Uno di questi è la creazione di playlist musicali, di suggerimenti di lettura, di visione di film o di visita di luoghi. In questo ambito, gli algoritmi sono utili soprattutto per scoprire contenuti dei quali si ignorava perfino l’esistenza.
Spotify, per esempio, crea le proprie playlist tramite algoritmi. Netflix costruisce i suoi suggerimenti di visione tramite programmi che macinano dati raccolti dalle esperienze di navigazione degli abbonati.
La modalità delle relazioni tra piattaforme e utente è stata ultimamente oggetto di un ripensamento. Spotify, ad esempio, affianca ora alle playlist create dagli algoritmi quelle curate da persone esperte e retribuite. Apple, invece, altra scuola di pensiero, lo ha sempre fatto e continua a farlo nei suoi servizi di streaming.
Quando la musica può risultare molesta
Sakamoto, quando viveva a New York nell’East Village, frequentava regolarmente il ristorante giapponese vegano Kajitsu sulla 39ª strada all’angolo con Lexington Avenue a Manhattan.
Un giorno decise di parlare con il gestore. Non riusciva più a sopportare la musica di sottofondo diffusa nell’ambiente mentre consumava il suo pasto. Era insopportabilmente molesta.
Il problema non era tanto il volume, lo infastidiva di più la compilation musicale che gli giungeva alle orecchie. Era un algoritmo a sceglierla.
Si propose allora lui stesso di selezionare, gratuitamente, un insieme di brani da diffondere in sala. Questo lo avrebbe aiutato a sentirsi maggiormente a proprio agio quando mangiava lì, cioè spesso.
Lo chef accettò la proposta e il musicista mise insieme una playlist, la Kajitsu playlist, appunto. Non c’è neppure una sua composizione. Sono tutte musiche di altri musicisti, quasi 50 brani.
A raccontarci la storia che vi stiamo proponendo è stato il giornalista Ben Ratliff qualche anno fa sul “New York Times”. È una storia che dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, quanta strada debba fare ancora l’AI solo per poter sperare di eguagliare il lavoro, compilativo prima ancora che creativo, di una persona con la cultura e la sensibilità di Ryuichi Sakamoto.
Musica in uno spazio pubblico
A parte la discutibile abitudine di diffondere musica nei luoghi pubblici, e dei gusti che la guidano (accade in quasi tutti i racconti distopici), occorre fare anche altre considerazioni quando si diffonde musica in un ristorante.
Per certe persone consumare il pasto è un atto di meditazione, di concentrazione e anche di raccoglimento e conversazione se viene consumato in compagnia.
Se decidiamo di mangiare fuori casa, esigiamo che il cibo non lo cucinino gli addetti alla pulizia o il personale di sala e neppure che arrivi dall’esterno in un contenitore termico. Vorremmo che fosse preparato dalla brigata di cucina, guidata da uno chef e con ingredienti di prima scelta.
Discorso analogo per la musica diffusa nelle sale da pranzo: musica spesso raffazzonata perché selezionata da un pirla di algoritmo. Ci piace riconoscere il ragionamento, il criterio alla base della diffusione dei brani che siamo costretti ad subire. Occorre che la compilation tenga conto di fattori di tipo ambientale, culturale, di convenienza, di genere e via dicendo.
Questa è la riflessione che deve avere fatto Sakamoto quando ha avvicinato il ristoratore per proporgli di creare una propria playlist da diffondere nel locale al posto di quella algoritmica.
Le scelte di Sakamoto
In effetti la cinquantina di pezzi che Sakamoto ha selezionato per il ristorante di Manhattan riflettono i suoi gusti e le sue inclinazioni, ma con misura, discrezione, tatto. È un mix di assoli per pianoforte, lenti, larghi, di difficile etichettatura, e di melodie che potrebbero stare nella colonna sonora di un film – oltre che un pizzico di improvvisazione.
È stato un lavoro sofferto trovare i brani giusti. Nell’intervista a Ben Ratliff, Sakamoto ha detto che lui e Ryu Takahashi, il musicista al quale ha chiesto aiuto, hanno buttato giù almeno cinque brutte copie prima di trovare una playlist che li convincesse. L’idea era anche quella di cambiarla con l’arrivo delle stagioni.
Si è lavorato molto sul jazz, che costituisce una delle fonti di maggiore ispirazione per le composizioni del maestro giapponese. Ma anche il jazz dà i suoi problemi quando si tratta di diffonderlo in un ambiente pubblico.
I brani della playlist
“Il problema è che il jazz come musica di sottofondo è troppo stereotipato” ha detto Sakamoto a Ratliff. Infatti la selezione di jazz è stata molto accurata e molto attenta. Nella playlist c’è Mary Lou Williams, ma non Duke Ellington. C’è Bill Evans, ma non il suo famoso Waltz for Debby, ci sono pure assoli di Jason Moran e di Thelonius Monk.
Una delle canzoni con pianoforte solista più forti è il primo movimento della placida Four Walls di John Cage interpretata da Aki Takahashi. Un’altra è My First Homage di Gavin Bryas. Altri pezzi notevoli sono Graysmith’s Theme di David Shire, tratta dalla colonna sonora del film Zodiac e Claudia, Wilhelm R and Me di Roberto Musci.
Tutti questi pezzi, menzionati da Ratliff, producono un effetto particolare sull’ascoltatore: catturano l’attenzione pur essendo discreti, minimalisti e soffusi.
La playlist ha avuto un successo tale che tutti i locali della catena dei ristoranti al quale appartiene quello sulla 39ª strada hanno deciso di diffondere la Kajitsu playlist di Sakamoto.
Siamo davvero in un’altra categoria rispetto a quella dove giocano gli algoritmi.
La Kajitsu playlist di Sakamonto (su Spotify).
P.S. Quasi tutti i fine settimana faccio colazione in un locale molto accogliente. Ci si può accomodare in confortevoli divani e leggere gli “antichi” giornali generosamente offerti ai clienti. Viene anche diffusa musica a volume corretto. Non credo sia una playlist, quanto una radio musicale. Ho proposto al giovane e intraprendente gestore di diffondere la Kajitsu playlist al posto dell’attuale. È molto interessato e si sta organizzando. Il pubblico gradirà. Con il passaparola gli affari aumenteranno. Quale marketing è migliore della buona musica?
Prima di andare
Transatlantic. È arrivata su Netflix la miniserie di 7 episodi ideata da Anna Winger, autrice di Unorthodox e di Deutschland '86 e '89, tre serie meritatamente strapremiate. Transatlantic racconta una vicenda reale svoltasi a Marsiglia dal 1940 al 1942. Nel 1940 in questo pezzo di terra francese non ancora occupato dai nazisti, inizia ad operare un gruppo di persone guidate dal giornalista americano Varian Fry e raccolte nell’Emergency Rescue Committee (Erc), fondato nel 1933 su proposta di Einstein. Questo gruppo, pur con gli ostacoli posti dal console degli Stati Uniti e l’ostilità della polizia francese, riesce a portare in America il fior fiore dell’intelligentia europea di origine ebraica. Si sta parlando di personalità delle arti figurative come Marc Chagall, Max Ernst, Hans Bellmer, Marcel Duchamp, della filosofia come Walter Benjamin, Hannah Arendt; della letteratura come Victor Serge, André Breton, Heinrich Mann, Solo Mann, Franz Werfel, Alma Mahler Schindler; del pensiero economico come Albert Hirschman e altre 2000 persone. Purtroppo Benjamin non sarebbe mai arrivato a New York. Prostrato, si sarebbe tolto la vita a Portbou in Catalogna. Anche in questo modo l’Europa consegnò all’America l’egemonia culturale e scientifica e si inflisse un’automutilazione irreparabile. C’è un libro che ricostruisce con accuratezza l’emigrazione intellettuale dall’Europa, sotto il tallone del nazifascismo, verso l’America di Roosevelt. È Da sponda a sponda di Stuart Hughes. Un libro, introvabile in italiano, che goWare ha intenzione di ripubblicare. Basquiat-Warhol. Se siete a Parigi tra qui e il 28 agosto 2023 non mancate di visitare la Fondation Louis Vuitton al Bois de Boulogne. Troverete un'esposizione unica nel suo genere, BASQUIAT × WARHOL, À QUATRE MAINS. Dal 1984 al 1985, Jean-Michel Basquiat (1960-1988) e Andy Warhol (1928-1987) hanno realizzato insieme oltre 150 dipinti "a quattro mani". La fondazione Vuitton ne ha raccolti un cospicuo numero che espone nei propri avveniristici ambienti. Per maggiori informazioni, qui.
L’ultima parola al sidolizzatore: Vèni, àudi, convèni… L’ho ascoltata, la Playlist di Sakamoto: sollievo – del frequentatore assiduo di mense aziendali e autogrill stradali, che sono stato e sono; orientamento – di quello, più occasionale, di ristoranti polistellati dalle travolgenti stagioni vivaldiane che distraggono dal cibo e dalla sommessa conversazione. Totale disaccordo, invece, sul jazz: da mesi “ammesso”, in casa nostra, per accompagnare qualunque pasto, chiunque sia con noi: un ospite elegante e discreto.