
40 anni fa
Quarantun’anni fa, Ian Curis, il 23nne tormentato vocalist dei Joy Division, uno dei gruppi più trasformativi e innovativi della storia della musica, in un sereno giorno di maggio proprio alla vigilia della tournée americana, si toglieva la vita impiccandosi nella cucina della sua casa a Manchester.
Io ero al servizio di leva e la musica dei Joy Division era la colonna sonora della mia naja nel reparto trasmissioni della Brigata Friuli. L’ascoltavo su un rudimentale walkman che era stato lanciato l’anno prima dalla Sony.
Le atmosfere cupe e la musica densa e vischiosa, ritmata dalla batteria e dal basso—insieme al fruscio della cassetta—andavano all’unisono con l’esperienza della naja. Non capivo le parole anche per il timbro cavernoso della voce di Curtis. Inoltre la sua pronuncia non era proprio quella che avevo appreso negli esercizi di listening comprehension al Britisth Institute di Firenze, in Via Tornabuoni (proprio sopra Ferragamo), dove avevo studiato per cinque anni la lingua dei Joy Division, tre volte alla settimana.
Oggi su AppleMusic si possono visualizzare le parole dei brani dei Joy Division, e non solo di questa band, sincronizzati con l’ascolto. I versi delle canzoni scorrono a caratteri ben visibili sullo schermo del device. Volendo si può fare anche il karaoke imitando la voce di Curtis.
La duratura meteora dei Joy Division
La band aveva adottato il nome di un bordello del campo di sterminio nazista descritto nel romanzo La casa delle bambole di Karol Cetinsky, superstite di Auschwitz. I componenti della band, che provenivano dagli ambienti proletari di Manchester, dovevano sentire una qualche misteriosa affinità con il mood della destra estrema, visto che il gruppo, dopo la scomparsa di Curtis, continuò a suonare, in una stupefacente continuità con la band originaria e nonostante l’accusa di neonazismo, con il nome dei New Order.
La vita dei Joy Division, come quella di Curtis, fu brevissima. Due album in studio e molti concerti dal vivo. Il live era la forma che i giovanissimi componenti della band prediligevano come non ha mancato di sottolineare il volitivo bassista dei Joy Division, Peter Hook, in una serie di conversazioni raccolte dal direttore artistico della casa discografica della band, John Savage, e pubblicate nel suo libro Autobiografia di una band pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2019.
Tutt’oggi la band scioltasi quaranta anni fa ha 4 milioni di ascoltatori mensili su Spotify.
Ci sono pure due film avvincenti sui Joy Division: Control (2007) di Anton Corbijn (in streaming a noleggio su Amazon Prime e Chili) e 24 hour Party People di Michael Winterbottom (in streaming a noleggio su Amazon Prime e Chili), quest’ultimo sul milieu musicale di Manchester dove a farla da protagonista è l’eccentrico e visionario produttore discografico Tony Wilson interpretato da Steve Coogan.
Sull’eredità dei Joy Division è uscito un brillante articolo di Mario Turco pubblicato dal magazine di cinema Sentieri Selvaggi che vi invito a leggere quando avete un quarto d’ora da riempire, magari tornando o andando al lavoro, adesso che si può.