COPERTINA
“All We Imagine as Light” è il magnifico film indiano del 2024, scritto e diretto da Payal Kapadia, dall’infelice titolo italiano di supporto “Amori a Mumbai”, che non solo è fuori contesto, ma tradisce il senso evocativo dell’originale.
Da pochi giorni, quest’opera è disponibile su MYmovies, il servizio di streaming italiano dedicato al cinema d’autore e ai festival, con la possibilità di vederlo doppiato in italiano.
Ben accolto dalla critica, il film è stato inserito dal “New York Times” tra i dieci migliori del 2024 e ha conquistato il Grand Prix speciale della giuria al Festival di Cannes.
Nonostante il successo internazionale, la Film Federation of India, composta da 13 uomini, ha scelto di farsi rappresentare agli Oscar 2025 da un’opera più commerciale, “Lāpatā Ladies”.
Ha ritenuto “All We Imagine as Light” “troppo poco indiano” e “un film europeo girato in India”. Interamente al femminile, il film è in effetti una coproduzione indo-europea, seppur recitato in hindi.
I paragrafi che seguono contengono spoiler, anche se, in realtà, questo è un film di sentimenti più che di trama, e poco si presta a rivelazioni che ne compromettano la visione.
Buon giorno e buon inizio settimana.
“Nessuno può sfuggire al proprio destino”, dice Prabha, un’infermiera del Kerala sulla trentina, con amorevole malinconia alla più più giovane Anu, amica, coinquilina e collega in un ospedale di Mumbai.
Entrambe le donne hanno vite personali complicate. Il marito di Prabha l’ha lasciata per andare a lavorare in Germania e si è allontanato definitivamente da lei, lasciandola dolorosamente sola.
Anu ha un amante segreto, un giovane musulmano gentile e premuroso; una relazione che, però, deve rimanere celata alla famiglia (induista) e persino a Prabha che, discreta e prudente, potrebbe scoraggiarla.
Destini
A Ratnagiri, località costiera a 300 km da Mumbai, le due donne hanno accompagnato Parvathy, la cuoca dell’ospedale, una donna energica di mezza età che ha deciso di tornare al suo villaggio.
La casa in cui vive da 22 anni a Mumbai, sta per essere demolita per far posto a un grattacielo. Parvathy, però, non ha documenti per rivendicare il diritto di ricollocazione e quindi deve andarsene.
Sulla spiaggia del villaggio, sedute al tavolo di uno chalet sgangherato gestito da un ragazzino perduto nel suo mondo, Anu confida a Prabha che la sua famiglia le ha organizzato un matrimonio combinato.
È lo stesso destino toccato a Prabha un anno prima, quando si era ritrovata sposa di un uomo che ora vive in Germania, che non sente da più di un anno e che le ha spedito un costoso cuociriso.
Matrimonio combinato? Anu in realtà ama Shiaz, un giovane musulmano che la ricambia con uguale intensità. Entrambi sono consapevoli che le loro famiglie, fedeli alle tradizioni, non accetteranno mai la loro unione.
In un gesto di tenera ribellione, Anu si abbandona a Shiaz. Qualcosa accade – possiamo solo intuirlo – un evento destinato a segnare la probabile rottura dei due giovani con le tradizioni e le loro comunità.
Lo spirito di Mumbai
Oltre metà di “All We Imagine as Light” si svolge a Mumbai, la porta dell’India, una megalopoli (31mila abitanti per kmq) che è un crocevia di molte culture e lingue e l’affaccio del grande Paese sul mondo.
La regista, che viene dal documentario e vive a Mumbai, ce la restituisce con uno sguardo intimo, sensoriale, per lo più notturno, con riprese in macchina in movimento che portano il respiro stesso della città.
Certo la città appare soffocante e opprimente per le tre protagoniste due delle quali condividono anche un piccolo appartamento e affrontano quotidianamente le pressioni di una società patriarcale.
Gli spazi angusti, la luce artificiale e il rumore costante contribuiscono a creare un senso di isolamento e precarietà. Eppure Mumbai trasmette un senso di materno rifugio marsupiale.
La città è un luogo di sogni, di opportunità e di crescita, dove i desideri, altrimenti irrealizzabili, hanno la possibilità di trovare momenti di espressione e di appagamento. Mumbai lascia volare l’immaginazione.
Dice Shiaz ad Anu mentre passeggiano in un mercato verso l’imbrunire “Io amo la sera. Nel mio villaggio a quest’ora dovevamo smettere di giocare al pallone e rientrare a casa. Ma qui sembra che la giornata sia appena iniziata”.
Durante il Ganesh Chaturthi, una delle feste di Mumbai più spettacolari dell’India, una voce femminile fuori campo, che non pare appartenere a nessuna delle protagoniste, recita:
“Si dice che Mumbai è la città dei sogni. Per me è la città delle illusioni. C’è un codice non scritto in questa città: anche se vivi nelle fogne, la rabbia non ti è concessa. La gente lo chiama ‘lo spirito di Mumbai’. Bisogna credere nell’illusione altrimenti si rischia di impazzire.”
Nel villaggio solare
Dopo che Parbha ha respinto Manoj, il medico che la corteggia discretamente, con un semplice “Posso andare dottore? Non vorrei perdere il treno”, le tre protagoniste lasciano Mumbai e raggiungono il villaggio di Ratnagiri.
Qui il film assume tonalità più pacate e contemplative, come se anche la narrazione stessa respirasse con loro un’aria più leggera, osserva Manohla Dargis. La chief film critic del “The New York Times” scrive:
“Il ritmo si dilata senza però scivolare nella staticità come spesso succede a certo cinema d’autore. In questo scenario naturale, i frammenti narrativi trovano la loro composizione: i desideri taciuti, i conflitti interiori e il profondo bisogno di appartenenza convergono in un punto d’incontro”.
Infatti il film si rivela in queste sequenze di una bellezza rara: un’opera che parla della fragilità della vita ma anche della forza decisamente lenitiva del prendersi cura gli uni degli altri.
Narrazione sottile
Il film comunica attraverso suggestioni più che dichiarazioni esplicite, affidandosi a silenzi, sguardi, gesti, paesaggi e visioni per trasmettere il senso e la profondità delle emozioni.
Emblematica è la splendida scena dell’immaginato ricongiungimento di Prabha con il marito che ella pare ritrovare nello sconosciuto naufrago al quale ha appena salvato la vita con un massaggio cardiaco.
Oggetti e spazi che circondano i personaggi assumono un ruolo narrativo importante, sostituendo efficacemente il dialogo e rendendo superflue le spiegazioni. Un modo usato dai grandi autori come Hitchcock.
La casa di Parvathy a Mumbai, buia e fatiscente ma colma dei ricordi di una vita, dà il senso della perdita e del radicamento di fronte alla furia finanziaria. Il film include anche un momento di critica sociale.
Si vedono Prabha e Parvathy, dopo aver preso parte a una riunione politica, lanciare pietre contro un cartellone pubblicitario di una torre residenziale per ricchi che recita: “La classe è un privilegio… Riservato ai privilegiati”.
Oggetti simbolici
Lo chalet sulla spiaggia, fulcro della lunga sequenza finale, si trasforma in uno spazio di sospensione, possibilità e luce contro cui si staglia l’orizzonte scuro della notte.
Il cuociriso giunto inaspettatamente dalla Germania e che risveglia in Prabha il ricordo doloroso dell’affetto perduto, diventa depositario di memoria, nostalgia e desiderio fisico.
In una sera di pioggia, Prabha si accovaccia sul pavimento freddo della cucina, stringendo al pube la pentola. Un’immagine di struggente desiderio, forse solo per una carezza, che commuove lo spettatore.
Anche gli elementi naturali partecipano attivamente alla narrazione: la pioggia e il vento scuotono ma al contempo puliscono l’aria. Il mare dà serenità, placa e guarisce.
Il gesto di Anu che indossa il burka senza esitazione si trasforma in un potente messaggio: sentimento e desiderio cancellano del tutto una scissione imposta e artificiosa tra due comunità.
La delicata premura con cui Prabha e Anu si prendono cura della gatta gravida, culminante nell’ecografia sulla sua pancina, rispecchia il sentimento inespresso e impossibile tra Prabha e il medico Manoj.
Questa scena introduce l’unico momento di violenza verbale del film, conducendoci a quello che ritengo essere il suo nucleo tematico: il messaggio di non violenza.
Il messaggio di non violenza
In un ambiente duro e aspro, il film si distingue per l’assenza totale di violenza, sia nella comunicazione sia nelle azioni dei personaggi, siano questi femminili che maschili. Shiaz e il dottor Manoj sono persone dolcissime.
Le tre protagoniste affrontano anche una forte questione di genere, ma lo fanno con una dignità e una consapevolezza che escludono ogni forma di risentimento o desiderio di rivalsa.
Nelle loro relazioni non trovano spazio prevaricazione, manipolazione o imposizione, ma piuttosto accoglienza, comprensione reciproca, soccorso e sorellanza.
Il loro legame si nutre di piccoli gesti d’affetto, di un sostegno silenzioso e di presenza che, pur senza proclami, si trasforma in un atto di profonda e tenace resistenza.
Un film lirico
La regista Payal Kapadia al suo primo lungometraggio sviluppa la storia con una naturalezza stupefacente senza forzature e con un costante tocco leggero e delicato.
Kapadia evita ogni sentimentalismo: non chiede compassione per le sue protagoniste né allieva le loro difficoltà per renderle meno dirompenti, le mostra come sono davvero, da documentarista.
Le osserva con rispetto e verità, offrendoci la storia di tre esistenze che, pur lontane dalle nostre, appaiono straordinariamente familiari e suscitano nello spettatore un forte senso di empatia.
È proprio questa delicatezza emotiva a rendere “All We Imagine as Light” un film lirico di superba bellezza e intensità, un film di sentimento capace di trasmettere autenticità senza mai cedere all’artificio o alla retorica.
Ha ragione la Dargis a scrivere: “vale la pena sottolineare sin dall’inizio che si tratta di un’opera assolutamente straordinaria, tra le migliori dell’anno”. Peccato che non possa essere insignita di un meritatissimo Oscar.