
Buongiorno, buon inizio settimana e anche buone vacanze a chi le inizia. Cambio di programma per la nostra NS: stavo preparando un post sul cinema quando è arrivata la triste notizia di Calasso. Vorrei omaggiare questo gigante della cultura contemporanea e dell’imprenditoria della conoscenza con un ricordo personale, un po’ dolente, ma appropriato. Confido nel fatto di non annoiarvi, come ha finito per fare Muccino a forza di parlarci delle sue storie.
Succede sul Montalbano
Negli ultimi anni di malattia, Tiziana una volta alla settimana visitava un terapeuta che aveva l’abitazione-studio sul Montalbano. Il Montalbano è una vasta area di collina e mezza montagna che divide il medio Valdarno dalla piana di Prato e Pistoia.
Il Montalbano rivolto verso Firenze è stato la riserva di caccia dei Medici, il Barco reale mediceo. La famiglia originaria del Mugello vi fece erigere 3 delle 14 ville dette medicee. Dal 2013, per la loro architettura, i giardini e la natura sono diventate il 49° sito italiano Patrimonio dell’Umanità.
La prima di queste ville si trova ai piedi del Montalbano, dal lato di Prato, nella località di Poggio a Caiano. La seconda è a Cerreto Guidi, sul lato che guarda il medio corso dell’Arno. La terza, Villa Ferdinanda, detta anche “Dei Cento Camini” è privata e situata proprio nel cuore del Barco reale, ad Artimino. È un edificio magnifico, opera della maturità del Buontalenti, con una sontuosa scalinata d’ingresso. All’interno ci sono degli affreschi del Passignano, un discreto artista della scena fiorentina tardo-rinascimentale.
Gli annessi della Ferdinanda sono oggi un hotel a 4 stelle, La paggeria medicea, cui sono annessi spa, piscina, campo da tennis e ristorante. Con un po’ di buona volontà si possono trovare delle ottime tariffe (anche inferiori a 100 euro a notte; di rado, tuttavia).
A poche centinaia di metri dalla Paggeria c’è il ristorante “Da Delfina”, due forchette Michelin (da non confondere con le stelle). Vale una sosta per rifocillarsi con i succulenti preparati della cucina della signora Delfina (naturalmente non adatti ai veggy…).
Vino e pennello
Bisogna però menzionare altre due cose quando si parla del Barco reale: il vino e il Pontormo (ci sarebbero anche gli etruschi, ma lasciamo perdere, per ora). Il vino DOCG di Carmignano è tra i migliori vini toscani. Si produceva già al tempo degli etruschi. Francesco Redi, un noto (per me che ogni giorno attraversavo la trafficata via che porta il suo nome) naturalista aretino del 700, dice che è un “vino degno di Giove”.
Non m’intendo granché di vini, come mi ha fatto recentemente notare il mio amico Paolo Manca; ma, per quel che vale: il mio preferito è il “Vin Ruspo” rosato di Carmignano che si può trovare agevolmente ad Artimino (prezzo facile: 10 euro a bottiglia).
Nella propositura di Carmignano c’è il capolavoro del Pontormo, La visitazione, che già annuncia Paul Cezanne. Il pittore di Empoli era un grande ipocondriaco. In un diario annotava meticolosamente tutti i suoi movimenti intestinali, alle volte anche quelli dell’amico Bronzino. A proposito di Agnolo Bronzino, al Metropolitan di New York c’è adesso una grande mostra del ritrattista fiorentino che veramente lo colloca al livello dei maggiori maestri del Rinascimento. Il Diario del Pontormo è di maggiore utilità per un gastroenterologo che per uno storico dell’arte.
Ma, lasciamo stare l’intestino e torniamo al nostro dottore.
Ka, il fermaporta
L’abitazione del terapeuta era in una radura alla quale si accedeva percorrendo uno stretto e sconnesso passaggio ricavato nel bosco ai piedi di Castra, un agglomerato il cui castello compare in un disegno di Leonardo.
Nonostante odiassi guidare, soprattutto per quei sentieri, accompagnavo Tiziana alle sedute e l’attendevo nell’auto parcheggiata tra gli olivi della radura. Non mi sentivo tranquillo a lasciarla guidare da sola.
Il dottore riceveva i pazienti in una stanza che nella bella stagione arieggiava con il venticello fresco che veniva dal bosco. Per evitare che la porta sbattesse la contrastava con un libro. Era Ka di Giuseppe Calasso.
Quando Tiziana me l’ha riferito ho pensato che fosse un sacrilegio usare un libro del genere come fermaporta, se non altro per rispetto dell’immane lavoro che Calasso ci aveva messo dentro, lavoro inteso in senso marxiano, cioè valore esistenziale incorporato in un mero oggetto d’uso polivalente. Allora ho detto a Tiziana di chiedere al dottore di mettere un altro fermaporta; se proprio doveva essere un libro, meglio Oblomov.
Oblomov
Suggerii Oblomov perché utilizzavo il libro di Gončarov per evitare che sbattesse la porta che dava accesso alla stanzetta dov’era la lettiera dei gatti quando in casa c’erano correnti d’aria.
Oblomov è un fenomenale capolavoro della letteratura russa, mille pagine (2,99 nella BUR per Kindle). Il protagonista non avrebbe certo disdegnato di starsene indolentemente sdraiato per ore a farsi coccolare da una piacevole folata d’aria. Mica è complicato come Ka!
Il regista russo Nikita Michalkov nel 1980 ha adattato il libro in una pellicola piena di pathos magistralmente interpretata da Oleg Tabakov. Alcuni giorni della vita di I. I. Oblomov non raggiunge i livelli di poesia del successivo Oci Ciornie (su Chili, 2,99 euro), ma il film è ugualmente delizioso (quasi introvabile: su eBay c’è qualche copia. Altrimenti: in biblioteca, oppure ve lo posso mandare io se mi scrivete).
Potete guardarlo prima di iniziare la maratona della lettura del libro. Su Audible c’è anche l’audiolibro (7 ore e 10 minuti) letto da Silvia Cecchini (anch’ella un medico specializzato in medicina non convenzionale). Una bella lettura (ma non integrale), condotta dall’attore Paolo Bonacelli (che ha lavorato anche con Pasolini e Antonioni), è accessibile gratuitamente su Radio 3/Ad alta voce.
Da Ka ad Oblomov
Quando Tiziana chiese al terapeuta perché usava Ka come fermaporta, il dottore le rispose che lo teneva lì perché il libro, sempre nel suo campo visivo, lo ispirava e l’aiutava a tenere saldo il timone del suo metodo.
Quando Tiziana uscì da quella seduta ed entrò in auto aveva in mano Ka. Il terapeuta le aveva gentilmente donato il libro di Calasso perché lo leggesse.
Alla seduta seguente a contrastare la porta c’era proprio Oblomov.
Ho ancora a casa Ka con la sua copertina incurvata e la pagine ondulate per l’umidità assorbita durante la mansione di fermaporta.
Lo prendo spesso in mano, ma la sua densità mi spaventa (530 pagine). Forse un giorno riuscirò a leggerlo anche in omaggio a questo bell’episodio, di un periodo, però, doloroso al quale non riesco ancora a dire addio.
Libri unici
Ecco l’eredità di Calasso: i libri sono idee e l’editoria è il loro forum. Il mestiere dell’editore non potrà mai essere quello di un mero impresario. Dovrà essere anche quello di un impresario che lascia un’impronta culturale, l’impronta dell’“arte dell’editoria”.
L’essenza di questa arte è la scoperta del valore di “libri unici” o di libri sepolti come i papiri di Ercolano. La missione dell’editore è la stessa dell’esploratore e dell’archeologo: calpestare dove non c’è stato nessuno e dissotterrare il sepolto.
Ecco come Calasso si esprime a proposito dei libri unici:
In definitiva: libro unico è quello dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto. Il libro è un risultato secondario, che presupponeva qualcos’altro. Occorreva che lo scrivente fosse stato attraversato da questo altro, che vi fosse vissuto dentro, che lo avesse assorbito nella fisiologia, eventualmente (ma non era obbligatorio) trasformandolo in stile. Se così era accaduto, quelli erano i libri unici…, libri che avevano fortemente rischiato di non diventare mai libri.
L’impronta dell’editore
Questo passo è tratto da L’impronta dell’editore (6,99 versione Kindle), un libro di Calasso nel quale questo maestro di stile e intelligenza ci mostra con semplicità come l’editoria sia un genere letterario e una vera e propria arte. Ed ecco che traccia, a modo suo, i profili di alcuni “artisti”: Giulio Einaudi, Luciano Foà, Roger Straus, Peter Suhrkamp, Vladimir Dimitrijević.
Non a caso l’edizione inglese di Penguin, nella traduzione di Richard Dixon, ha proprio il titolo The Art of Publisher.
Imponente l’omaggio a Calasso del “New York Times”. Alexandra Alter, la book critic del giornale, lo presenta come un “Renaissance Man of Letters”, riecheggiando l’elogio di Stephen Heyman che, in intervista del 2015, lo aveva indicato come “Italy’s Publishing Maestro” dopo che la traduzione di Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Revelli aveva scalato le classifiche della New York Times Best Sellers List.
Come erano unici i libri che il Maestro sceglieva, così era unico il suo essere editore. Speriamo adesso che questa unicità di Adelphi non diventi maniera. Sarebbe un peccato! Calasso ha lasciato un’eredità difficile al “popolo” dell’Adelphi.
Prima di andare
Prime video ha finalmente caricato tutte le stagioni del Racconto dell’Ancella, la serie tratta dal capolavoro della scrittrice canadese Margaret Atwood. Guardando la serie emerge molto bene il distinguo che i canadesi vogliono mantenere dagli americani. Ma, a parte questa cosa che già sapevo, mi ha colpito la somiglianza fisica tra il comandante Pryce, uno degli architetti di Gilead e spietato capo della sicurezza, e Viktor Orban. A tal punto che non si sa chi ha ispirato chi.
Post sidolizzato da Tiziano Tanzini che (temporibus illis) ha iniziato a conoscere Adelphi dal suo maestro Michele Ranchetti uno dei primi collaboratori di R. Calasso in quest’impresa per il quale ha curato la pubblicazione di una serie di scritti di L. Wittgenstein.