Affinità elettive
Tanto “eroica” fu la morte di Pasolini, tanto banale quella di Roland Barthes, 41 anni fa. Investito dal furgoncino di una lavanderia sulle strisce pedonali appena fuori il College de France, Barthes sarebbe spirato trenta giorni dopo in un ospedale di Parigi e, a detta dei medici curanti, senza che si vedesse una reazione alle ferite riportate nell’incidente.
Si dice che dopo la morte dell’adorata madre, Henriette, Barthes si sia lasciato andare. La stessa cosa è successa al grande stilista inglese Alexander McQueen che però ha compiuto di propria mano il gesto estremo, proprio il giorno dopo la sepoltura della madre, Joyce.
Molte le affinità elettive tra Pasolini e Barthes. L’omosessualità — esplosiva nel primo, implosiva nel secondo — il legame ombelicale con la madre, l’adesione asistematica a un certo marxismo critico, la vastità degli interessi, la tendenza alla poligrafia, allo sperimentalismo e all’interdisciplinarità, nonché l’essere divenuti gli intellettuali più controversi dei loro paesi.
E poi: due morti premature e assurde che hanno dato il la a molte congetture. Come quella dell’omicidio politico o a sfondo sessuale nel caso di Pasolini (v. per ultimo il film di Abel Ferrara, con uno straordinario Willem Dafoe, disponibile su Netflix) o l’ipotesi del suicidio o del delitto à l’Agatha Christie (v. La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet, 2019, La nave di Teseo) nel caso di Barthes.
Tra i due intellettuali c’era anche una certa cross-reference, anche se non sempre consensuale. L’ingenuità di Pasolini affascinava Barthes anche quando era in radicale dissenso come nel caso dell’accostamento tra Sade e il fascismo implicito in Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pasolini.
In un articolo su “Le Monde” Barthes scriveva:
“Salò mette a disagio tutti, perché, in ragione dell’ingenuità tipica di Pasolini, impedisce a chiunque di riscattarsi. Ed è per questo che io mi domando se, al termine di una lunga catena di errori, il Salò di Pasolini non sia in fin dei conti un oggetto propriamente sadiano: assolutamente irrecuperabile: e in effetti, nessuno sembra poterlo recuperare”.
All’irrecuperabile cinema di Pasolini, Barthes preferiva quello “virtuoso” di Antonioni.
Un esempio di scrittura
Venendo da studi storici, non capivo granché di quello che Barthes scriveva, specialmente in francese, una lingua che stavo studiando da cinque anni all’Institut français di Firenze in Piazza Ognissanti. Mi ricordo che una prova d’esame fu proprio la comprensione di un suo scritto. Alle volte i francesi sono sadici con gli italiani. Di Barthes mi rimaneva poco anche nelle ottime traduzioni italiane.
Ero però affascinato dalla sua prosa che aveva qualcosa di sinfonico anche nell’aspetto formale. La scelta del lessico, la costruzione della fase, la lunghezza dei paragrafi, le spaziature nella pagina, la stessa estensione dei suoi libri rendevano la sua opera un esempio di stile ed eleganza.
Non era solo esporre una tesi con efficacia, era narrare una tesi con grazia letteraria. Barthes era veramente un designer del periodare. Recentemente ho letto che negli anni giovanili Barthes si era formato su Marcel Proust e penso che questo possa spiegare molto circa la personalità della sua scrittura.
Alla fine della sua carriera si era spinto a teorizzare che tra opera letteraria e critica non esisteva più alcuna differenza. Grazie a Barthes ho realizzato che la saggistica o il giornalismo possono essere un genere letterario, con un proprio stile, come lo è la poesia o la narrativa.
Basta fare come lui, o meglio: tentare. È quello che ho cercato di fare anch’io, ma tutta la costruzione è stata spazzata via, negli anni successivi, dall’inglese e non è più tornata… a parte il piacere di rileggere gli scritti di Barthes.
A 41 anni dalla sua scomparsa, pesante assenza in un’epoca di cambiamenti come la nostra, mi piace ricordarlo con una intervista sul cinema e uno dei suoi primi libri.
L’intervista è quella a Cahiers du cinéma del 1963 su Cinema Metaforico e Cinema Metonimico.
Il libro è Il grado zero della scrittura (1953) nella prima edizione italiana del 1960, liberamente accessibile.