
Buongiorno e buon inizio settimana natalizia. Oggi vorrei parlarvi di un argomento che spunta sovente dal mio menu, direi almeno sette volte alla settimana. Sono i film. Con quel loro potenziale di conoscenza e di piacere, insito anche nei peggiori.
Lo stesso si potrebbe dire dei libri ma i libri sono molto impegnativi: il tempo è una costante e oggi l’offerta di conoscenza e svago è una variabile impazzita. I libri divorano troppo tempo. I film sono meno famelici e, se accendi la mente, ci trovi tutto.
La docuserie di Peter Jackson dal titolo The Beatles – Get Back su Disney+ ci offre lo spunto per un discorso interessante.
Beatles ovunque
Nelle otto ore di filmati d’epoca, molti inediti, messi abilmente insieme da Jackson in Get Back, Jere Hester, cultore – tra molto altro – dei Fab Four e direttore di “The City”, ha trovato moltissimi spunti per fare un discorso sul metodo Beatles come leva capace di cambiare noi, oserei dire “Gente comune” (dal titolo del film a regia di Robert Redford vincitore di due premi Oscar, a noleggio su Chili), in persone capaci di magie. Non una cosa proprio nuovissima: i Beatles sono più di una band, sono case studies inseriti nei curricula delle scuole di business.
La Apple Records derivò il suo nome, come ci ricorda Paul McCartney, dai dipinti di Magritte che raffiguravano una mela verde in situazioni improbabili. La Apple, a sua volta, deve il suo nome alla casa discografica dei Beatles, un mito per i fondatori. Come si vede tutto era già connesso prima che Meta ci vendesse questo concetto. I Beatles sono decisamente un caso di studio da laurea magistrale.
Il mio amico Beppe Carrella ne ha mostrato, ad esempio, uno sul concetto di leadership (vabbè, se ne occupa fin da quando era alle elementari…) in un libro, oramai già metaversico, pubblicato di recente: Beatles, leadership a tempo di musica.
Get Back, la creazione
In effetti Get Back ci dà qualcosa che prima non avevamo. Sono otto ore di pura creazione. È il making di Let it be nel 1969 con l’improvvisato ultimo concerto dal vivo sul tetto interrotto dai bobbies, del quale abbiamo visto una breve clip al Tg1.
È proprio l’atto di documentare il making di Let it Be (album e film usciti nel 1970) che rende speciale la serie di Jackson, l’artista neozelandese che ha creato la trilogia del Signore degli anelli e poi installato a Wellington (Nuova Zelanda) uno dei più grandi laboratori di computer grafic e di intelligenza artificiale del mondo. Non ci sono solo gli All Blacks in NZ.
Il sale di Jackson
Ma Jackson non ha solo collazionato e curato un immenso materiale d’archivio inedito (150 ore tra girato e registrato), vedi per dettagli l’articolo di Andrea Silenzi su “la Repubblica”.
Piuttosto, come scrive Hester, Jackson, pur senza forzare l’intenzione di restare nel cinéma vérité, ha fatto una cosa diversa e migliore: “ha cucito ore e ore di riprese grezze in una propria trama creativa profonda e multidimensionale”. Una trama che si può interpretare da punti di vista molteplici.
Quella di Jackson è, in ultima analisi, la rappresentazione analitica di un processo creativo-collaborativo che cristallizza un metodo ben preciso: iniziare con un’intuizione, lasciare che Paul metta giù due note mentre aspetta l’arrivo di John, proseguire con improvvisazioni di George e Ringo; … la session va avanti per ore, intanto è arrivato John, e termina con una magia.
Tutto questo sotto l’immensa pressione del mondo esterno che si aspetta la luna da ogni nuovo disco della band già scossa da dissidi e da differenti prospettive di vita che di lì a pochissimo li avrebbero divisi per sempre.
Lezioni di creatività
Si può anche vedere molto altro, dicevo, in Get Back: l’amaro crepuscolo di una grande band, lo sgretolarsi di una amicizia, la dinamica tra i differenti talenti, l’ansia da prestazione, la dinamica delle personalità e via dicendo.
Per chi come me non arde per i Beatles, e neppure per il Rolling Stones, il film di Jackson contiene alcune preziose lezioni di comportamento creativo che Jere Hester ha saputo ben estrapolare in un bell’articolo sul “New York Times” dal titolo ‘Improvise It, Man.’ How to Make Magic Like the Beatles. Ve ne riassumiamo qualcuna con l’aiuto di Hester, autore anche di un libro sui Beatles e loro profondo conoscitore.
Ripetere e provare e se non funziona ripetere ancora
Le prove per affinare i testi del pezzo Don’t Let me down, per esempio, e trovare i giusti arrangiamenti musicali sono infinite, estenuanti e massacranti (sembrano gli incontri di “Rocky”). È questo ripetere e ripetere che infonde alla band la fiducia necessaria per portare lo spettacolo sul tetto. Mentre salgono su Paul dice "La parte migliore di noi – lo è sempre stata e sempre lo sarà – è quando ci mettiamo con le spalle al muro e proviamo, proviamo, proviamo”. Lassù, poi, danno il massimo per 42 minuti, fino a quando i bobbies mettono fine alla performance del secolo.
Lavorare duro, anzi durissimo
Il gruppo è puntuale, disciplinato, focalizzato e concentrato durante le prove nello sforzo di trovare le parole che servono e suonare l’armonia giusta. Nonostante la birra e il vino, c’è quella che oggi chiameremmo (con termine forse compromesso) una “professionalità” immensa. Altro che bravi ragazzi di Liverpool! Sembrano un commando dei Lagunari.
“Errare senza meta è assai poco swinging”, dice McCartney. “Molto, molto vecchia maniera”, ripete. Paul è il grillo parlante del gruppo e anche il suo stakanovista.
Pensare in grande
All’inizio del film McCartney cerca di convincere il gruppo a comporre in 17 giorni ben 14 nuovi pezzi per presentarli in uno speciale televisivo. La proposta crea tensione e Harrison entra in crisi ed esce di scena (per poi ritornare). Pensare in grande spezza la schiena, ma è fruttuoso. Apre nuove possibilità creative e reali e se si associa al ruota libera – i Beatles, per esempio, favoleggiano cercando un luogo non convenzionale dove tenere il concerto –, getta i semi del frutto che verrà. Per il concerto dal vivo sarà poi scelta la terrazza-tetto della Apple Record nell'edificio di Savile Row, nel cuore di Londra (dove si terrà il 30 gennaio 1969). L’intero concerto è documentato nel film di Jackson.
Mixare strutturazione e improvvisazione
Quando McCartney si inalbera a capetto della band e cerca di metterla in riga, Lennon e Harrison si irritano, non tanto per ragioni di potere quanto perché Paul infrange un modo di lavorare fatto di improvvisazioni spontanee e condivise, senza prevaricazioni. Quando McCartney abbandona il ruolo di capoclasse, che gli viene spontaneo, si rilassa e la musica prende forma attraverso la jam session a cui tutti contribuiscono. Da lì nasce la spina dorsale del pezzo.
Quando il gioco si fa duro, fare squadra
Anche mentre questionano tra loro nel caliginoso studio di Twickenham prima che Harrison lasci, i Beatles si stringono a coorte come se fossero di nuovo sul piccolo palco del Cavern Club di Liverpool, dove suonavano insieme prima di raggiungere il successo.
Gli amici di lunga data, membri della band più famosa del mondo, si parlano a malapena ma suonano, cantano e “riffano” l'uno sulle idee dell'altro. Tra i tanti casi: I've Got a Feeling, l'ultima vera composizione Lennon-McCartney. Come John Lennon disse più tardi, "Tutto quello che abbiamo siamo noi". Difficilissimo essere noi. Una grande meta, facile da smarrire.
Cambiare scenario aiuta
Dopo che Harrison torna nella band (e viene abbandonata l’idea di prendere Eric Clapton in sua vece) e il progetto dello special televisivo è messo da parte, i quattro ragazzi di Liverpool si riuniscono nell'angusto seminterrato della Apple Records, e lì iniziano ad improvvisare, scherzano, si sciolgono e la musica sgorga senza sforzo.
“State lavorando così bene insieme”, dice il produttore discografico George Martin a Harrison. “Vi guardate, vi vedete? Sta succedendo davvero!”
Immettere sangue fresco
L'arrivo del tastierista Billy Preston migliora l'atmosfera e unisce il gruppo. Lo spirito creativo ravvivato da Preston si irradia oltre la band — ai vocalizzi estemporanei di Yoko Ono e a Linda Eastman che cattura le session con degli scatti. Ognuno ci mette il proprio marchio creativo. Ringo passa dalla batteria al piano per scrivere Octopus's Garden.
John Lennon invita Preston a diventare un Beatle, e George chiede di estendere l’invito a Bob Dylan. McCartney la butta sull’umorismo: “È già abbastanza terribile essere in quattro”.
Morale
Niente dura per sempre al di fuori dell’arte, ci dice Get back. I Beatles non volevano terminare tutto quello che avevano costruito insieme. Erano però determinati a cambiare lo stato delle cose per andare avanti. E Jackson ci mostra lo strazio di questi quattro ragazzi, non ancora trentenni, che vogliono crescere senza allontanarsi l’un l’altro non solo sul piano creativo.
Quando George si allontana e non si sa se tornerà, Paul sogna un futuro ritrovarsi di quattro amici (al bar?) e John più ambiziosamente dice: “Quando saremo tutti molto vecchi, torneremo ad essere d’accordo e canteremo di nuovo insieme”.
Non è successo. Però grazie al bellissimo lavoro di Jackson, possiamo vedere la band suonare di nuovo insieme e andare alla fonte dell’ispirazione che ha reso i Beatles la più grande forza creativa della cultura pop di tutti i tempi.
Non è una visione facile quella di Get Back, come non lo sono i film di Andy Warhol o il cinema sperimentale di New York che ha nutrito l’immaginazione dei Valvet Underground (ottimo film di Todd Haynes su Apple Tv+). Se però suonate in una band Get Back è pappa reale.
Prima di andare
Libri per Natale. Come ogni anno Alberto Saibene, uno dei maggiori cultori del libro che conosca, ha mandato, alla sua maniera riservata e discreta, alcuni preziosi consigli di lettura per le prossime feste e non soltanto per quelle. Sono delle piccole pepite che occorre una certa abilità per estrarle dalla massa dei libri che escono in Italia. Potete trovarle qui
Sapelli. Siamo orgogliosi di avere reso disponibile online il saggio “Angoscia e politica” di Franz Neumann che Sapelli ha citato nel post dello scorso lunedì come uno degli scritti della sua formazione. Trovate il saggio integrale di Neumann qui.
Streaming. Se desiderate sapere se un film è disponibile in streaming o online potete andare su JustWatch, un motore di ricerca di streaming legale per film e serie. Si può anche filtrare il risultato della ricerca per “Prezzo migliore”, “Gratis”, “Risoluzione (SD, HD, 4K)”. Super utile per non perdersi nei labirinti delle raccomandazioni.
House of Gucci. Se non avete ancora visto House of Gucci, o anche se lo avete già visto, guardate pure Lady Gucci la serie che Discovery Channel ha trasmesso in chiaro su Nove. Due prospettive totalmente diverse della medesima storia. In che modo lo sono lo lascio scoprire a voi. Ora trovate Lady Gucci su Discovery +. Qui si vede una Reggiani mansueta, ragionevole, compassionevole e pentita, ma alle sue figlie ha dato appuntamento in tribunale: vuole i 30 milioni di euro del vitalizio del marito, della cui morte continua a dirsi innocente. Si è anche risentita con la Metro-Goldwyn Mayer per non essere stata consultata per House of Gucci. Ma Lady Gaga la fa a pennello.
Migliori film del 2021. Il decano dei critici cinematografici americani e co-chief film critic del “New York Times”, A.O. Scott, ha pubblicato la lista dei migliori film che ha visto nel 2021. Contiene suggerimenti che il motore di Netflix non potrà darci mai, neppure dopo che siamo entrati nell’epoca della singolarità tecnologica di Ray Kurzweil. La lista di Scott è qui. Quella dei migliori attori del 2021, qui.
A questi vertici di creatività il sidolizzatore non ha mai potuto aspirare. Ma non si è stupito di vederli negli altri: in un ragazzino decenne, per esempio, che, alle prese con la copia di una microscopica vignetta da un celebre comic, disegnato da Ticci, getta montagne di carta perché “la testa stupenda del mustang di Tex non viene come la vedo io”.
Meglio tacere che far brutte figure.