
Buongiorno e buon inizio settimana. Iniziamo subito. Avrete tantissime email da leggere.
Vannevar Bush
Al vertice dell’astrazione sulla rivoluzione Internet troviamo due cose: il link e la ricerca.
Link è stato una intuizione di Vannevar Bush (1890-1974), un grandissimo scienziato americano. Il fondamento teoretico del link si trova in un suo saggio del 1945 dal titolo autoportante: As we may think. Il saggio integrale è stato pubblicato in Italia da goWare in un volume curato da Mario Ricciardi e Sara Sacco.
Secondo Bush la mente funziona per associazione casuale di idee e materiali presi dallo scibile conosciuto, cioè dalla memoria. Una macchina può aiutare la mente a potenziare questo funzionamento naturale offrendogli in linea “tutte le informazioni”.
Da qui l’ingegnosa apparecchiatura meccanica da lui ideata e chiamata, non casualmente, “Memex” che ritengo stia per Memory Expansion. Qui c’è l’embrione del World Wide Web.
Se dovessimo erigere un Mount Rushmore della tecnologia ci starebbero quattro giganti: Ada Lovelace, Alan Turner, Vannevar Bush e Steve Jobs.
Contenuto espanso #1: Vannevar Bush e il modo in cui pensiamo.
I due ragazzi di Stanford
Senza Ricerca, anche un oceano di dati, ma non strutturati, non vale nulla. Con Ricerca è però determinante stabilire la rilevanza del trovato. E come è possibile stabilirla se il sistema non conosce il contenuto?
Prima che due ragazzi di Stanford risolvessero questo immenso problema teorico la ricerca su Internet attraverso i cosiddetti motori pregoogleani era patetica. Cercavi “Lorenzo il Magnifico” e ti veniva fuori un Hotel di Barberino di Mugello come pagina più rilevante.
Due studenti di matematica di Stanford decisero di prendere il toro per le corna. Erano Larry Page, figlio di un matematico americano, e Sergey Brin, figlio di un matematico russo.
I due ragazzi inventarono l’algoritmo del secolo: il PageRank. Il PageRank stabiliva con sufficiente accuratezza la rilevanza di un contenuto rispetto agli altri contenuti reperiti in una ricerca. Stabiliva, cioè, la “popolarità” di una pagina web. Attenzione! Concetto ancora quantitativo, non già abbastanza qualitativo (al quale si lavora oggi).
La determinazione della rilevanza
Come ci arrivarono Page e Brin? Con la cultura, ovviamente.
Presero l’abbrivio dal sistema di reputazione degli articoli scientifici, basato sul numero di citazioni che raccoglieva un articolo scientifico e certificato con il metodo dei peer-review che provvidero a rimodulare nell’algoritmo.
Tante più citazioni/link un articolo/pagina web riceveva tanto più era rilevante per la comunità. Semplice, no? Lo stesso Larry Page indicò il passo successivo: “Adesso scansioniamo tutto il Web”. Crearono, cioè, il Memex o un Atlante della conoscenza e della memoria. Chiamarono Google questa roba.
Il capo di Altavista, il primo concorrente di Google, spiega così quello che avvenne:
Era così semplice da essere tremendamente difficile per i team tecnici che lavoravano nelle società dei motori di ricerca che non pensarono di utilizzare una cosa banale come il link.
Ci voleva una mentalità che andasse oltre la logica dell’ingegnere. Ecco perché la tecnologia senza la filosofia è come un campo senza l’aratro. Viva gli Ingegneri!
Contenuto espanso #2: Le origini di Google.
L’intuizione di Aby Warburg
Considerate tutto questo. Bene, Aby Warburg, tormentatissimo rampollo di una facoltosa famiglia di banchieri ebrei di Amburgo, i Warburg (tutt’oggi attivi nella finanza internazionale), alla fine degli anni ’20 aveva già fatto tutto questo. Nel campo dell’arte aveva ideato un metodo che poi sarà il canone del World Wide Web.
Stanco della impostazione formalista, estetizzante e attributiva degli studi d’arte del suo tempo creò un metodo profondamente interdisciplinare e associativo per studiare “i campi di forze che costituiscono un periodo”.
Il “raffigurato” (cioè l’immagine) per Warburg era la sintesi di mondi e culture alle quale rimandava di continuo. Bisognava eviscerarne i collegamenti, le combinazioni, le variazioni e le adiacenze. Religione, filosofia, mitografia, astrologia, psicologia, fisiognomica, iconologia, antropologia, storia della scienza, demonologia e tanti altri, erano tutti saperi che contribuivano a raggiungere questo obiettivo.
Probabilmente dal pensiero e dalla teoria piscoanaliticadi Freud (che però detestava), Warburg focalizzò i suoi studi sulla memoria profonda e sulla “semiotica” dell’opera, così da diventare il padre dell’iconologia. Paternità riconosciuta anche da Erwin Panofsky, considerato il suo maggiore esponente.
L’Atlante delle immagini della memoria
Dal 1926 al 1929 (anno della improvvisa scomparsa) Warburg si dedicò al progetto del Bilderatlas Mnemosyne (Atlante delle immagini delle memoria). Scelse e dispose 917 immagini su 63 grandi pannelli (1,5x1,25 m) fasciati di tela nera, creando qualcosa di simile a un sito web fisico.
Ogni pannello sviluppava un tema e lo articolava nei suoi possibili collegamenti che come scrive Gombrich “spiegavano la sua visione delle forze che hanno determinato l’evoluzione della mentalità occidentale”
Lo stesso criterio costitutivo dell’Atlante guidò Aby Warburg nell’organizzare la disposizione dei volumi della sua personalissima biblioteca poi diventata il nucleo del Warburg Institute.
Contenuto espanso #3: Il Bilderatlas Mnemosyne
Un gigante del nostro tempo
Sir Ernst Gombrich, uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, ha dedicato ad Aby Warburg una biografia intellettuale di 320 pagine (disponibile in italiano).
Anche il maggiore storico italiano vivente, Carlo Ginzburg, ha dedicato al metodo warburghiano (a cui deve molti spunti) un saggio di 75 pagine ora in un libro scandalosamente introvabile (Miti, enigmi e spie, Einaudi, pp. 29-106). Il saggio è però su Scribd.
Gli scritti discontinui e frammentari, il carattere schivo e anche le crisi nervose cui andava soggetto hanno tenuto Warburg lontano dalla luci della ribalta. Ma era fatto della stessa pasta di Nietzsche.
Di sé diceva: “Sono ebreo di sangue, amburghese di cuore, fiorentino di spirito”.
Gli inglesi, fin troppo oculati con i soldi dei contribuenti, nel 1944 decisero di incorporare la Biblioteca di Warburg — trasferita da Amburgo a Londra nel 1933 per sfuggire ai nazisti — nella London University e di farne un’istituzione a sé stante (il Warburg Institute). E lo fecero dopo aver verificato che il 30% dei libri sbarcati a Londra nel 1933 non erano neppure al Bristh Museum.
Grazie al Warburg Institute, Londra divenne il centro degli studi sull’arte.
Al Warburg Institute
Sono stato due volte al Warburg Institute alla fine degli anni Ottanta. La cosa che più mi ha colpito è stata proprio la biblioteca, allora disposta, vado a memoria, su quattro piani.
Si poteva sciamare liberamente nelle corsie prendere un qualsiasi libro dagli scaffali, aprirlo e sedersi per terra sulla moquette o in un banchetto al termine della corsia (sempre occupato).
La cosa più sbalorditiva era tuttavia il modo in cui erano accostati i libri. Non per autore, non per periodo di edizione o argomento, ma secondo un criterio che mi è sfuggito finché non mi sono imbattuto (su una rivista francese) in questa frase attribuita a Warburg: «l’information décisive n’est pas contenue dans le livre recherché et devrait être située dans un de ses ouvrages adjacents».
Proprio così: parti per l’India e alla fine vai in America. L’importante è andare.
Contenuto espanso #4: Il rinascimento del Warburg Institute.
Contenuto espanso #5: Il posto di Aby Warburg nella storia dell’arte, di Ernst Gombrich.
Prima di andare
L’ultima di Elon Musk non è portare gli Uffizi su Marte, idea balzana alla quale ha aderito con insolito entusiasmo il controllato direttore del museo fiorentino, Eike Schmidt. Ma un progetto più mondano. Musk ha venduto tutte le sue 7 case (valore 137 milioni di dollari) ed è andato a vivere in un monolocale prefabbricato da 50mila dollari a Boca Chica (Texas) attaccato al campus di Space X. Adesso è in gabbia.
A proposito del Metaverso, Facebook ha presentato Horizon Workrooms, un’app che simula una sala di riunione virtuale dove poter incontrare i colleghi indossando gli Oculus (300 euro), gli ingombranti visori VR di Facebook. Ogni partecipante sarà rappresentato da un plasticoso e gesticolante Avatar che tenterà di riprodurre i movimenti facciali e corporei del partecipante. Al che l’editorialista del “Financial Times” ha commentato: “Unfortunately, if this is the future, many office workers will be happy to live without it.” Scusa Mark, visto che ci sono 10mila persone a lavorare su questa tecnologia, non sarebbero meglio gli ologrammi degli Avatar?
Post sidolizzato da Tiziano Tanzini che da cittadino tedesco si rammarica moltissimo del trattamento che il suo Paese ha riservato a un genio come Aby Warburg e a una istituzione come la Kulturwissenschafliche Bibliothek Warburg nell’anseatica e tollerante Amburgo.