di Mario Matteini
[Sesto episodio di otto del ciclo “Le parole nella storia”]
Episodi della serie:
1. Le valigie della speranza
2. Le valigie salvifiche
3. Le valigie del grand tour… de force
4. Le valigie delle sorprese
5. Le valigie dei migranti
6. Le valigie dei tempi di guerra
7. Le valigie delle stragi
8. Questo prendiamo noi
Buongiorno e buon weekend. Parlando della valigia non si poteva non arrivare lì, alla guerra. Questo naufragio della civiltà. Vi consegno subito alla lettura di sei casi di sorprendenti reperti portati dalla mareggiata della guerra. La lettura, oggi, esige qualche minuto in più del solito. E le storie sarebbero tantissime, come mi dice il nostro Mario Matteini che ne ha trovate un’infinità.
La “valigia messicana” di Robert Capa
I preziosi rullini
Nel dicembre del 2007, all’International Center of Photography di New York arrivano tre scatole pieni di rullini fotografici. È lo straordinario contenuto di un bagaglio malconcio, miracolosamente sopravvissuto a una guerra devastante e a un avventuroso viaggio.
Un viaggio iniziato alla fine del 1939 a Parigi, quando il suo proprietario, il fotografo Robert Capa, l’aveva affidata a un amico perché mettesse in salvo il suo prezioso contenuto.
Per Robert Capa il contenuto è prezioso, non solo perché si tratta di 4500 fotografie, scattate fra il 1936 e il 1939 durante la guerra civile spagnola, ma anche perché fra gli autori di quelle foto c’è Gerda Taro, l’amore della sua vita, morta nel corso di quello stesso conflitto.
L’incredibile Gerda
Robert e Gerda si erano conosciuti a Parigi nel 1934, quando lei aveva 23 anni e lui due di meno. Gerda, che in realtà si chiamava Gerta Pohorylle, era nata a Stoccarda da una famiglia ebrea di origine polacca e aveva abbandonato la Germania dopo essere stata imprigionata per attività antinazista.
Anche Robert, ebreo ungherese, il cui vero nome era Endre Friedmann, aveva lasciato il suo paese di origine, dove le sue simpatie per il comunismo erano incompatibili con il governo di estrema destra.
A Parigi, uniti nell’amore e nell’attività di fotografi, avevano acquisito una crescente notorietà con i rispettivi pseudonimi di Robert Capa e di Gerda Taro.
Nell’agosto del 1936 si recano in Spagna per documentare la guerra civile, insieme all’amico David Szymin, noto come David Seymour. Poco meno di un anno dopo Gerda muore in seguito alle ferite riportate in un tragico incidente durante un trasferimento da una zona di guerra.
Da un fronte all’altro con la Laica
Capa continua la sua attività di fotoreporter. Nel 1938 si reca in Cina per fotografare la resistenza all’invasione giapponese. L’anno successivo, in Spagna, documenta la resa di Barcellona. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale va a New York, ma la passione politica, l’amore per il suo lavoro e lo spirito d’avventura lo portano di nuovo sui campi di battaglia ed è così che lo troviamo al seguito delle truppe alleate in Inghilterra, in Africa settentrionale, in Italia, in Normandia, a Parigi e a Berlino.
Fra il 1948 e il 1950 si reca tre volte in Israele, per documentare la nascita del nuovo Stato e la guerra che ne consegue. Nel 1954 vola ad Hanoi per un servizio sulla guerra della Francia contro l’Indocina ed è qui che scatta le sue ultime fotografie, prima di calpestare una mina anti-uomo.
Due anni dopo morirà il suo amico David Seymour, ucciso dalle raffiche di una mitragliatrice nel corso di un reportage sulla crisi di Suez. Scompare così, caduto come gli altri due su un campo di battaglia, anche l’ultimo autore del reportage sulla guerra civile di Spagna.
La “valigia messicana”
E scomparso sembra anche il materiale fotografico di quel servizio, che Robert Capa, nel 1939, prima di partire per gli Stati Uniti, aveva affidato all’amico e collaboratore Imre “Csiki” Weisse.
Nel 1995, il produttore cinematografico messicano Benjamin Tarver, tra i beni che ha ereditato dalla zia, trova un valigia con dentro tre scatole contenenti materiale fotografico. Alla zia la valigia era stata donata da un suo intimo amico, il generale Francisco Aguilar González, che era stato ambasciatore del Messico nella Francia collaborazionista di Vichy dal 1941 al 1942.
Su come la valigia sia arrivata nelle mani dell’ambasciatore non è dato saperlo con certezza. Quello che è certo è che nei 126 rullini della “valigia messicana” ci sono i 4.500 negativi dello foto scattate da Robert Capa, Gerda Taro e David Seymour fra il 1936 e il 1939 alla guerra di Spagna.
La tremenda quotidianità dalla guerra
Nel 2007, dopo lunghe trattative, il prezioso materiale è consegnato all’International Center of Photography di New York, fondato nel 1974 dal fotografo Cornell Capa (pseudonimo di Kornél Friedmann), fratello minore di Robert.
Dalla “valigia messicana” emergono così i volti di personaggi famosi, come Federico García Lorca, la “Pasionaria” Dolores Ibarruri, Ernest Hemingway, Joan Miró, Raphael Alberti. Ma le immagini più preziose sono quelle che documentano il dramma della guerra civile, vista attraverso i volti della gente comune, i funerali, le rovine, le scene di vita quotidiana sconvolta dagli orrori della guerra.
Allora come oggi.
La valigia di Oskar Schindler
L’angelo con la lista nella valigia
“Oggi arriva Oskar e porta la sua valigia”. Così scrive sul suo diario nel novembre del 1970 Annemarie Staehr.
Annemarie ha conosciuto Oskar poco tempo prima a Tel Aviv, dove suo marito Heinrich è il medico incaricato dalla repubblica federale tedesca di valutare i rapporti medici degli ebrei che hanno chiesto risarcimenti. Cominciano a frequentarsi e, in breve, fra loro nasce una stretta amicizia.
Oskar si ammala seriamente di cuore e il dottor Heinrich Staehr e la moglie lo assistono premurosamente, tanto da ospitarlo nella loro casa a Hildesheim. Ed è qui che Oskar porta la sua valigia.
Oskar muore nell’ottobre del 1974 e la sua valigia finisce in soffitta. Dieci anni più tardi muore anche Annemarie. La valigia di Oskar resta in soffitta fino al 1997, quando, dopo la morte di Heinrich Staehr, il figlio Christian la ritrova. La sorpresa è grande: la valigia è consunta e polverosa, ma le etichette sono ancora leggibili: “Oskar Schindler - Frankfurt am Main, am Hauptbahnhof ".
La lista di Schindler
E Oskar Schindler è proprio l’imprenditore tedesco che, proprietario di una fabbrica a Cracovia, aveva salvato 1200 ebrei dalla deportazione ad Auschwitz.
Nella sua valigia ci sono centinaia di lettere, fotografie, ritagli di giornali e documenti vari e, fra questi, una copia di quella che diventerà famosa come “la lista di Schindler”, ossia l’elenco degli ebrei che non potevano essere deportati, perché essenziali per il lavoro nella sua fabbrica.
Christian e la sorella Tina rimasero a lungo indecisi su cosa fare. Finalmente, nel 1999, decisero di consegnare la valigia con tutti i documenti in essa contenuti al giornale Stuttgarter Zeitung, che, dopo un attento esame per verificare l’autenticità del materiale, pubblicò, fra il 16 e il 26 ottobre, una serie di articoli, che ebbero una grande risonanza e non solo in Germania.
Nel dicembre del 1999 la valigia e tutti i documenti vennero inviati in Israele, allo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah.
Attraverso quei documenti viene ricostruita la vita di Schindler dopo la fine della guerra. Sappiamo così che nel 1948 esortò gli ebrei che era riuscito a salvare a comportarsi “in modo umano e giusto” e a “lasciare le condanne e la vendetta agli amministratori della giustizia”.
L’Oscar di Oskar
Dalle numerose lettere scritte e ricevute apprendiamo che con alcuni dei “suoi” ebrei aveva instaurato rapporti di vera amicizia e che da alcuni di loro fu più volte aiutato a superare le non poche difficoltà, causate dai fallimentari tentativi di avviare attività imprenditoriali, da varie delusioni, dall’abuso di alcol e dalle malattie.
La valigia di Schindler ci lascia dunque il ritratto di un uomo che, dopo aver salvato tante vite, non riesce a gestire la propria in modo equilibrato e finisce povero e quasi dimenticato. Nel 1993, il film Schindler’s list di Steven Spielberg, vincitore di sette Oscar, lo farà conoscere al mondo.
Nel 2015 il produttore del film, Branko Lusting, cittadino croato sopravvissuto ai campi di sterminio, decide di lasciare in eredità la statuetta assegnata come miglior film, regia, fotografia, sceneggiatura non originale allo Yad Vashem.
Allo Yad Vashem, nel 2017, terminerà definitivamente il suo viaggio anche la valigia di Schindler, dopo la sentenza della Corte Suprema di Tel Aviv, che mette fine alla causa avviata dalla ex moglie di Schindler, che ne rivendicava la proprietà.
La valigia di Pierre Lévi
È di mio padre!
Al Memoriale della Shoah a Parigi c’è un muro di marmo, sul quale sono incisi i nomi dei 76.000 ebrei francesi deportati ad Auschwitz. Michel Lévi-Leleu, nel febbraio del 2005, lo visita con raccoglimento e commozione: su quel muro c’è scritto anche il nome di suo padre, Pierre Lévi.
La commozione si somma alla sorpresa, quando la nipote, Claire, gli fa notare una targhetta su una valigia esposta in una teca: “Valigia appartenente a Pierre Lévi, deportato dalla Francia ad Auschwitz”.
Michel, emozionato e quasi incredulo, osserva con attenzione: è assai malconcia, manca il coperchio, ma si può ancora leggere l'indirizzo dell'ultima casa della famiglia a Parigi, Boulevard de la Villette. Non ci sono dubbi: è la valigia di suo padre.
Dopo sessanta anni la valigia di Pierre Lévi è tornata da Auschwitz, come prestito del Museo statale di Auschwitz-Birkenau al Museo della Shoah di Parigi per la mostra “Il destino degli ebrei dalla Francia durante la seconda guerra mondiale”.
Di Auschwitz a Parigi
Pierre era commerciante di diamanti a Parigi. Dopo l’occupazione tedesca della Francia, la famiglia Levi aveva lasciato Parigi, Pierre aveva trovato lavoro come bracciante vicino ad Avignone e sua moglie e i due figli, Michel ed Étienne, si erano rifugiati in Alta Savoia, dove avevano cambiato il cognome da Lévi a Leleu.
Nell’aprile del 1943, alla stazione di Avignone, mentre aspettava il treno per andare a trovare la moglie e i figli, Pierre venne arrestato e deportato ad Auschwitz, da dove non fece più ritorno.
Michel, che all’epoca dell’arresto del padre aveva 4 anni, vorrebbe che la valigia di suo padre non tornasse ad Auschwitz e, tramite il museo parigino, invia una richiesta in tal senso al museo di Auschwitz.
Questo risponde che non può privarsi delle valigie con i nomi dei deportati, perché sono preziose testimonianze materiali di ciò che è avvenuto. Michel, che ha affiancato al cognome della clandestinità quello originario, insiste perché non vuole allontanarsi da un pezzo così importante e significativo del suo passato.
Dopo lunghe trattative, si arriva a un accordo: la valigia resterà di proprietà del museo di Auschwitz, che però la lascerà al museo della Shoah di Parigi per un prestito a lungo termine.
La valigia di Dora
La valigia che non servirà più
“Prendila. Queste cose non mi serviranno più.” Con questa parole Dora lascia a Lina la sua valigia. Si erano conosciute nel carcere di Como nel 1944. Dora vi era stata condotta insieme al resto della sua famiglia: il padre Gino Salmoni, la madre Vittoria e i fratelli Gilberto e Renato.
Sono una delle tante famiglie di ebrei la cui vita è stata sconvolta dalle leggi razziali, introdotte dal regime fascista a partire dal settembre del 1938. Nel corso della guerra le difficoltà erano diventate sempre maggiori e la situazione si era fatta drammatica nel settembre del 1943, quando nel Nord del paese si era formata la Repubblica sociale italiana, asservito ai tedeschi, ai quali si era unito nella prosecuzione della guerra e anche nell’attuazione del programma nazista, compresi la persecuzione e lo sterminio degli ebrei.
Nell’aprile del 1944 la famiglia Salmoni decide allora di tentare la fuga in Svizzera. Insieme a Dora, che ha 25 anni ed è incinta, c’è il marito, Romolo.
Il 17 aprile del 1944, camminando a fatica sotto la pioggia e la neve, riescono ad arrivare al passo della Forcola, dove fanno una sosta per riposarsi. Ma è proprio qui, al confine fra Italia e Svizzera, che sono sorpresi e arrestati dai militi della repubblica di Salò. Vengono prima incarcerati a Bormio, poi a Tirano e da qui a Como.
Il corredo di una giovane sposa
Nel carcere di Como, Dora conosce Lina, la sua vicina di cella, con la quale si incontra durante la mezz’ora d’aria. È nel corso di uno di quegli incontri che Dora affida a Lina la sua valigia.
Lina viene scarcerata dopo pochi giorni, Dora e famiglia invece sono trasferiti prima al carcere di San Vittore a Milano e poi a Fossoli. Il marito di Dora, Romolo, trattenuto a San Vittore in quanto di “razza ariana”, era riuscito a fuggire e si era unito a un gruppo di partigiani.
A pochi chilometri da Carpi, il campo di Fossoli era stato costruito nel 1942 per imprigionare i militari nemici. Nel dicembre del 1943 la Repubblica sociale italiana l’aveva trasformato in campo di concentramento per ebrei e dal marzo del 1944 le SS l’avevano utilizzato come campo di transito (Polizei und Durchgangslager), per l’internamento di ebrei e oppositori politici destinati alla deportazione in Germania.
Ed è quanto accade anche alla famiglia Salmoni: Gilberto e Renato vengono deportati a Buchenwald, Dora con i genitori ad Auschwitz. Solo Gilberto e Renato sopravvivono.
Ma sopravvive anche la valigia di Dora. Lina, la sua vicina di cella nel carcere di Como, l’ha conservata chiusa in un baule nella sua casa di Bormio. L’ha custodita con cura nella speranza di poterla un giorno restituire a Dora, che ha cercato in tutti i modi di rintracciare.
Finalmente, nel 2017, riesce a raggiungere il fratello Gilberto. E così la valigia di Dora, dopo 73 anni, torna alla luce con il suo prezioso contenuto, poche cose, ma belle: il corredo di una giovane sposa.
La valigia con la farfalla gialla
I bambini di Terezín
“Spero che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è il semplicissimo messaggio, da nonna, che io vorrei lasciare ai miei nipoti e a tutti i miei futuri nipoti ideali: che siano in grado di fare la scelta e con la loro responsabilità e con la loro coscienza essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati”.
Così si conclude il discorso pronunciato nel gennaio del 2020 all’Europarlamento in occasione dei 75 anni dalla liberazione del campo di Auschwitz da Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e senatrice a vita della repubblica italiana.
La farfalla gialla di cui parla la senatrice Liliana Segre è ritratta nel disegno di una bambina deportata dai nazisti. Il suo è uno degli oltre 4000 disegni rimasti di quelli fatti dai “bambini di Terezín”, quasi 15.000 minori ebrei, che tra il 1941 e il 1945 furono deportati nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezín), a 60 chilometri da Praga.
Allestito come campo modello, per ingannare la Croce Rossa e l’opinione pubblica internazionale, il campo di Terezín in realtà era un luogo di passaggio verso i campi di sterminio. La sua particolarità era data dalla presenza di quasi 15.000 bambini, in gran parte di età inferiore ai quindici anni.
Fra i prigionieri adulti c’erano alcuni insegnanti, scrittori e artisti, che riuscirono ad organizzare varie attività per i bambini, per curarne l’istruzione e per cercare di rendere meno dura la vita nel campo. Oltre alle materie tradizionali vennero organizzati corsi di musica, teatro e disegno. Di questo ultimo si occupò in particolare Friedl Dicker.
I pennelli di Friedl
Friedl era un’artista ebrea nata a Vienna nel 1898. Aveva studiato e lavorato a Vienna e a Berlino, interessandosi non solo alla pittura ma anche alla grafica, alla fotografia e al design. Aveva anche instaurato rapporti di collaborazione e di amicizia con importanti artisti e professionisti, come Klee e Kandinskij.
Nel 1934 aveva abbandonato Berlino, dopo essere stata arrestata perché comunista. Trasferitasi a Praga, aveva continuato la sua attività politica e artistica, e aveva conosciuto il cugino Pavel Brandeis, che aveva sposato nel 1937.
L’occupazione nazista del paese li costrinse a rifugiarsi prima a Hronow, nella Boemia nordorientale, e poi nel villaggio di Žďárky.
Nel dicembre del 1942 vennero espulsi dal paese e deportati nel campo di Theresienstadt. Al momento di fare i bagagli Friedl, insieme a pochi vestiti, mise in valigia materiale per disegnare e dipingere.
Ed è con questo materiale che inizia la sua attività con i bambini di Terezin, cercando di istruirli al disegno ma soprattutto di attenuare le pesanti conseguenze degli spaventosi traumi che hanno subito.
Oltre il filo spinato
Nascono così disegni che raffigurano soldati, armi, uomini e donne senza vestiti, pigiami a righe, filo spinato, ma anche case, fiori, farfalle, cieli azzurri e prati verdi: l’orrenda realtà del campo, vista attraverso gli occhi dei bambini, ma anche le loro emozioni, le loro paure e le loro speranze.
Il 90 % dei bambini di Terezin trovò la morte nel campo stesso o in altri campi, in gran parte ad Auschwitz o Treblinka, dove erano stati trasportati. Insieme a loro, ad Auschwitz, morì anche Friedl. Prima del trasferimento però era riuscita a nascondere molti dei disegni dei suoi bambini.
Dopo averli scrupolosamente catalogati, scrivendo su ogni foglio il nome dell’autore, l’età, il giorno della deportazione e, in molti casi, quello della morte, li aveva riposti con cura in due valigie. Le due valigie con le quali era arrivata al campo.
Nascoste in una delle aule dei bambini, le due valigie furono trovate dopo la liberazione del campo avvenuta nel maggio del 1945. Molti sono ora esposti al museo ebraico di Praga, dove la farfalla gialla è tornata a volare oltre il filo spinato.
La valigia di sua eccellenza il Duce
Mussolini ultimo atto
Un vestito di lana da donna color ruggine e un’uniforme militare di colore grigio, privata dei gradi e delle mostrine. Questo il contenuto di una valigia, messa all’asta a Dallas, in Texas, nel settembre del 2011 e venduta per 6350 dollari. Probabilmente il venditore si aspettava di ricavarci qualcosa di più, visto che la valigia in questione era niente meno che quella di Benito Mussolini.
E alla rilevanza del proprietario si sommava anche l’eccezionalità della circostanza per la quale l’aveva preparata, ossia il suo ultimo viaggio.
Siamo alla fine di aprile del 1945, le truppe tedesche, fiancheggiate dai fascisti della repubblica di Salò, cedono definitivamente davanti all’offensiva degli alleasti e agli attacchi delle formazioni partigiane. Mussolini, dopo aver tentato inutilmente di trattare la resa con il Comitato di Liberazione Nazionale, fugge a Como, da dove il 26 aprile, insieme ad alcuni gerarchi e a Claretta Petacci, si dirige verso il confine svizzero, unendosi a una colonna di automezzi tedeschi.
Ciò che resta di un capo
Il 27, nei pressi di Dongo, un posto di blocco partigiano la blocca e Mussolini viene riconosciuto, travestito da soldato tedesco. I fascisti fuggiaschi sono tutti arrestati e fucilati il giorno successivo. La colonna tedesca viene autorizzata a passare.
I partigiani consegnano la valigia di Mussolini al colonnello Charles Poletti, commissario regionale per il governo militare alleato. Questi la affida al proprio attendente, il tenente Paul Moriconi, e con lui la valigia arriva negli Stati Uniti. Alla morte di Moriconi, gli eredi decidono di metterla all’asta.
Il prezzo di partenza è cinquemila dollari. Se l’aggiudica a 6350 un misterioso compratore, che entra così in possesso dell’ultima valigia del duce, con i vestiti che lui e Claretta Petacci non ebbero più occasione di indossare.
Prima di andare
NETcruciFLIXo. In pochi mesi Netflix ha perduto il 40% della propria capitalizzazione e 2 milioni di abbonati. La fine della pandemia è stato un disastro per il team di Los Gatos che ha fatto tremare Hollywood. Ci saranno dei cambiamenti importanti …anche per gli abbonati. Ne ha fatto un prudente accenno lo stesso Reed Hastings che guida Netflix fin dalla fondazione e che soleva dire che l’unico rivale di Netflix era il sonno. Ecco qualche “piccolo” cambiamento: arriverà un abbonamento con la pubblicità; non si potrà più condividere l’account (gli attuali 100 milioni di imbucati dovranno adattarsi): finirà la sbornia seriale delle maratone; le nuove serie saranno offerte a episodi settimanali come già succede adesso con Better Call Saul e su Disney Plus e Apple TV+. Beh, quando sei arrivato alla vetta e non c’è più niente da scalare, non resta che scendere. Un’esperienza che sta facendo anche Spotify. A Wall street hanno persona fiducia nel modello economico dello streaming.
Daje Boris. L’imprevedibile Boris Johnson ha minacciato di privatizzare l’Ufficio passaporti e la Motorizzazione inglese per combattere la “post-covid mañana culture”. Ma quella c’era già prima!