La vaccinazione: una storia millenaria
3. La nascita del vaccino e la consapevolezza della sua pubblica utilità
di Mario Matteini
[Terzo episodio di quattro]
Primo episodio
Secondo episodio
Quarto episodio

Buongiorno e buon fine settimana. La storia della vaccinazione di Mario Matteini — di seguito pubblichiamo la terza e penultima parte — diventerà un libro con qualche significativo ampliamento. Si potrà così leggere questa interessante e poco conosciuta storia con una differente concentrazione di quella possibile da una lettura condotta su un pezzo di vetro che bippa e poppa di continuo.
Il libro è una relazione monogamica, non possono esserci distrazioni se non quelle fisiologiche. A meno che non siete in modalità aereo.
Buona lettura!
Sulla copertina
Francisco Javier Balmis il medico che guidava la Real Expedición Filantrópica de la Vacuna (Reale Spedizione Filantropica del Vaccino), organizzata dalla monarchia spagnola nel 1803 con l’obiettivo di vaccinare le popolazioni delle colonie spagnole in America e in Estremo Oriente, duramente colpite da una epidemia di vaiolo. È considerata la prima immunizzazione globale della storia. Decisiva fu la partecipazione di ventidue bambini fra i tre e i nove anni, provenienti da tre diversi orfanotrofi. Durante la traversata vennero contagiati in successione in forma lieve attraverso l’inoculazione del virus, in modo che il vaccino ricavato dalle pustole rimanesse attivo fino all’arrivo sulle coste americane.
Edward Jenner: la svolta
Nonostante l’opera di sensibilizzazione svolta da scienziati e intellettuali, la pratica della variolizzazione rimaneva circoscritta, mentre ripetute ondate epidemiche continuavano a mietere vittime.
La svolta decisiva si verificò alla fine del secolo grazie alla intuizione e agli esperimenti del medico inglese Edward Jenner. Egli, nel corso del suo lavoro nella contea di Gloucester, aveva osservato che gli allevatori addetti alla mungitura, manipolando le mammelle delle vacche colpite da vaiolo bovino (cow pox), si ammalavano anch’essi in forma lieve e poi non contraevano più la malattia.
Per avere conferma di quanto osservato, nel maggio del 1796, inoculò in un bambino di otto anni materiale infetto prelevato da una donna colpita da vaiolo bovino; il bambino si ammalò e guarì rapidamente. Dopo alcune settimane Jenner inoculò nel bambino il vaiolo umano, ma la malattia non si manifestò.
La sua intuizione era dunque corretta e fu suffragata da altri esperimenti condotti negli anni seguenti. Era così provato che con l’innesto di materiale ricavato dalle pustole di mucche colpite da vaiolo vaccino (cow pox), si acquisiva l’immunità anche nei confronti del più pericoloso vaiolo umano: era nato ufficialmente il “vaccino”.
L’accoglienza della scoperta inizialmente non fu particolarmente entusiastica, ma, dopo altri esperimenti e alcuni perfezionamenti, la nuova procedura si affermò in tutta l’Europa e nelle Americhe.
La prima immunizzazione globale
Proprio nelle Americhe, agli inizi dell’Ottocento, si verificò un evento di grande significato storico, che può essere considerato come il primo esempio di immunizzazione globale. Si tratta della Real Expedición Filantrópica de la Vacuna (Reale Spedizione Filantropica del Vaccino), organizzata nel 1803 con l’obiettivo di vaccinare le popolazioni delle colonie spagnole in America e in Estremo Oriente, duramente colpite da una epidemia di vaiolo.
Non è un evento molto noto, ma forse non è male riportarlo alla memoria in questi tempi di pandemia, in cui si parla della necessità di diffondere la vaccinazione anti-Covid a livello internazionale.
Senza voler fare rischiosi e qualunquistici confronti con l’attualità, è comunque interessante notare come allora la decisione venne presa in tempi piuttosto rapidi, ossia nell’arco di pochi mesi fra il 1802 e il 1803.
Il promotore è il re di Spagna Carlo IV di Borbone, sulla cui biografia vale la pena di soffermarci brevemente, per comprendere le motivazioni della sua decisione e anche per alcuni aspetti illuminanti a proposito delle abitudini pubbliche e private tipiche delle famiglie monarchiche dell’epoca.
Carlo IV di Borbone, una figura chiave
Nasce a Portici nel 1748. Benché secondogenito, diventa erede al trono perché il fratello maggiore, mentalmente instabile, non era in grado di regnare. A diciassette anni sposa la cugina Maria Luisa di Borbone Parma, che aveva quattordici anni (il padre Carlo III aveva sposato la tredicenne Maria Amalia, figlia del re di Polonia, scelta per lui dai genitori).
Sale al trono nel 1788, otto mesi prima dello scoppio della rivoluzione francese. Si trova così a regnare in un’Europa sconvolta prima dagli eventi rivoluzionari e poi dall’imperialismo napoleonico: un periodo decisamente poco felice per i monarchi europei, specialmente per chi, come Carlo IV, preferirebbe occuparsi di musica e, soprattutto, di caccia, piuttosto che degli affari di stato.
A questi invece ci pensa eccome la moglie Maria Luisa, che, volitiva e astuta, con l’aiuto del primo ministro e favorito di corte Manuel Gody (che i maligni dicono fosse anche suo amante) esercita sul marito una influenza determinante.
Eventi poco felici caratterizzano anche la vita privata del sovrano spagnolo. Delle ventiquattro gravidanze della moglie dieci non vengono portate a termine, la metà dei quattordici figli nati muore in tenera età. Nel 1794, a portar via, a tre anni, la figlia Maria Teresa è il vaiolo, che sei anni prima aveva ucciso, a 36 anni, anche il fratello di Carlo IV, Gabriele, e la moglie di lui Maria Vittoria di Braganza.
Una decisione storica
Furono probabilmente questi eventi a sensibilizzarlo al problema del vaiolo. Conosce ed apprezza il nuovo metodo praticato da Jenner per effettuare la vaccinazione e decide di utilizzarlo per vaccinare in massa le popolazioni delle colonie del suo impero, duramente colpite dal contagio.
È dunque mosso da un obiettivo umanitario, ma comprende anche che la vaccinazione può essere un metodo efficace per impedire i ricorrenti contagi, che causavano vere e proprie catastrofi demografiche, con conseguente impoverimento delle risorse statali.
Non è dato sapere – ma, forse, è pretendere troppo – se considerasse la spedizione una specie di risarcimento tardivo a vantaggio di quelle popolazioni americane, che nei secoli precedenti erano state sterminate proprio dal vaiolo e da altre malattie portate dai colonizzatori.
Il laboratorio della corvetta Maria Pita
Comunque sia è da La Coruña, uno di quei porti che avevano visto salpare i conquistadores che, nel novembre del 1803, parte la corvetta Maria Pita. E questa volta non porta armi per aggredire, uccidere e conquistare, ma strumenti per salvare vite umane.
A destare meraviglia è poi il fatto che i principali fra questi strumenti di vita sono essi stessi esseri umani: ventidue bambini fra i tre e i nove anni, provenienti da tre diversi orfanotrofi.
Francisco Xavier Balmis, il medico che guida la spedizione, per risolvere il problema di come mantenere attivo il vaccino durante la traversata, ha infatti pensato di seguire il metodo praticato da Jenner del “braccio a braccio”: alla partenza il virus in forma attenuata sarà inoculato a una coppia di bambini.
Dalle pustole sviluppate da i primi due contagiati in forma lieve sarà prelevato il vaccino da inoculare in altri due, e così via via, fino all’arrivo in America.
Balmis è affiancato dal suo vice, il chirurgo Josè Salvany, da alcuni praticanti e da quattro infermiere, tra le quali Isabel Zendal, direttrice della Casa dei Trovatelli di La Coruña, che si occupa di accudire e curare i bambini.
La campagna di vaccinazione nelle Americhe
Poco dopo lo sbarco sulle coste americane, per poter più agevolmente procedere alla vaccinazione in tutte le colonie, la spedizione si divide in due tronconi, uno guidato da Balmis, l’altro dal chirurgo Salvany.
In tal modo, affrontando disavventure e disagi durante la navigazione, in sei anni raggiungono vari paesi dell’America Latina, arrivano fino alle Filippine e in Cina, riuscendo a vaccinare centinaia di migliaia di persone. A questi stupefacenti risultati dobbiamo aggiungere che in tutti i territori visitati vennero formati medici e operatori sanitari, creati appositi uffici e strutture stabili a tutela della salute pubblica.
Il team di Balmis
Balmis tornò in Spagna, dove continuò ad esercitare la professione di medico presso la corte reale e si occupò ancora di vaccinazioni; morì a Madrid nel 1819. Nove anni prima, in Bolivia, era morto Salvany, a 36 anni, a causa delle numerose malattie contratte durante la spedizione.
Isabel Zendal restò in Messico con il figlio, che era uno dei 22 bambini portatori del vaccino, ma non si sa esattamente dove e quando sia morta. Poco o niente sappiamo dei ventidue bambini, principali e inconsapevoli protagonisti della prima immunizzazione globale della storia.
Ad eccezione di qualche raro monumento, di qualche libro di recente pubblicazione e di un Tv movie spagnolo del 2016 intitolato 22 Ángeles (diretto da Miguel Bardem, solo in DVD).
La Real Expedición Filantrópica de la Vacuna e i suoi protagonisti non hanno avuto molti riconoscimenti e sicuramente sono ancora molti coloro che li ignorano completamente, anche dopo che in Spagna, la campagna avviata nel marzo del 2020 dal ministero della difesa, per combattere la diffusione del coronavirus, è stata chiamata “Operazione Balmis”.
La lungimiranza di Napoleone
I successi conseguiti con la vaccinazione furono accompagnati da un sempre maggiore coinvolgimento delle istituzioni pubbliche. Oltre al sostegno economico, in numerosi stati vennero decise la gratuità e l’obbligatorietà della vaccinazione.
Deciso sostenitore della vaccinazione fu Napoleone, che, nel 1805, la rese obbligatoria per tutti i soldati. Evidentemente l’obiettivo era quello di non indebolire la forza militare, visto che il contagio si diffondeva assai facilmente fra gli eserciti; a questo però si aggiungeva anche la consapevolezza che le truppe, muovendosi sul territorio, erano uno dei principali veicoli di diffusione della malattia.
Una tragica conferma di questo meccanismo di diffusione del contagio si ebbe con la guerra franco-prussiana degli anni 1870-1871. Si tratta di un conflitto “epocale”, che, oltre a causare centinaia di migliaia di morti, segnò una tragica svolta nelle relazioni internazionali.
Queste infatti restarono a lungo caratterizzate da una situazione di conflittualità permanente, che sfocerà nella prima guerra mondiale, nella quale i morti si conteranno a milioni.
E a questi si dovranno aggiungere le decine di milioni di morti causati da una delle più gravi pandemie della storia, l’influenza cosiddetta “spagnola”, scoppiata alla fine del conflitto, la cui diffusione a livello planetario fu anche questa volta favorita dai movimenti delle truppe.
L’imprevidenza di Napoleone III
Nel corso della guerra franco-prussiana i primi ad ammalarsi di vaiolo furono i soldati francesi, che Napoleone III, evidentemente meno lungimirante dello zio, non aveva fatto vaccinare. Il bilancio fu tragico: 125 mila contagiati e 23.470 morti. Fra i soldati prussiani, che erano stati vaccinati, i contagiati furono 8463 e i morti 459.
Con lo spostamento dei soldati, la deportazione dei prigionieri e le migrazioni dei rifugiati, il contagio si diffuse in tutta Europa anche presso la popolazione civile, che, essendo in massima parte non vaccinata, fu duramente colpita: secondo alcuni calcoli, oltre mezzo milione di morti fra il 1870 e il 1875.
Dal 1871 in numerosi paesi europei, a partire da Inghilterra, Francia e Germania, vennero emanati provvedimenti volti a rendere obbligatoria la vaccinazione della popolazione civile.