di Mario Matteini
[Quinto episodio di otto del ciclo “La valigia nella storia”]
Episodi della serie:
1. Le valigie della speranza
2. Le valigie salvifiche
3. Le valigie del grand tour… de force
4. Le valigie delle sorprese
5. Le valigie dei migranti
6. Le valigie dei tempi di guerra
7. Le valigie delle stragi
8. Questo prendiamo noi
Buongiorno e buon fine settimana. Prima o poi ci si doveva arrivare parlando della valigia. Eccoci giunti dunque ai migranti. Alle cinque storie che ci racconta il nostro Mario Matteini, vorrei solo aggiungerne qualcuna, facilmente raggiungibile.
Corea, Australia, Pittsburgh, Lampedusa
Prima di tutto la storia di estrema sofferenza, dolorosa privazione e anche ascesa sociale di un gruppo di famiglia coreano emigrato in un Giappone alquanto ostile (e anche vessatorio). È la miniserie Pachinko la moglie coreana (ogni venerdì un nuovo episodio su Apple TV+). Bellissima e impegnativa.
Poi la storia vera di Cornelia Rau, una cittadina di origini tedesche fuggita da un ospedale psichiatrico e internata nel 2005 in un campo di detenzione per migranti nel sud dell’Australia. Si rimane attoniti nel vedere tanta prevaricazione, ma anche tanta mobilitazione civile, in uno dei paesi più progrediti della terra, esso stesso nato come un enorme colonia di convicts. È la serie Stateless (6 episodi, su Netflix), ideata da Kate Blanchett. La vicenda ha scosso la politica australiana e la profonda coscienza democratica della grande nazione del Sud Pacifico. Certe volte è davvero difficile capire l’Australia. C’è un che di nevrotico nella cultura di quel bellissimo e civilissimo paese.
Quindi la vicenda umana e artistica di Andy Warhol, secondogenito di una famiglia povera emigrata a Pittsburgh da un paesino della Slovacchia orientale, narrata attraverso i diari dell’artista. Ne viene fuori un Wahrol che non è il prodotto di se stesso, ma una persona fragile e complessa. I diari di Andy Warhol sono su serie documentaria su Netflix in 6 episodi
Infine Lampedusa. La sociologa tedesca Heidrun Friese, che vive da 20 anni in Italia, ha soggiornato a lungo a Lampedusa per studiare il senso profondo di quello che sta succedendo nella porta dell’Europa. Ne è uscito un libro intenso, I Limiti dell’ospitalità. I profughi di Lampedusa e la questione europea, tradotto dal tedesco dal nostro sidolizzatore, Tiziano Tanzini. Lettura impegnativa ma importante per chi vuol davvero capire e non fermarsi ai talk show.
Nell’isola che fronteggia la Statua della libertà
Di altre vite, piene di sacrifici e di sogni, ci raccontano le centinaia di valigie di Ellis Island. Sono ammucchiate all’ingresso del Museo dell’Immigrazione, proprio nella sala dove i migranti depositavano i bagagli al loro arrivo.
Ellis Island è un’isola nella baia di New York, davanti a Manhattan, così chiamata dal nome di un suo proprietario, Samuel Ellis. Qui, nel 1892, il governo federale degli Stati Uniti decise di costruire un centro per gestire l’afflusso di migranti, che, iniziato alla metà dell’Ottocento, verso la fine del secolo era diventato un vero e proprio fenomeno di massa.
Nel corso degli anni successivi il centro venne ampliato e dotato di tutte le strutture necessarie per l’accoglienza, il controllo e l’assistenza degli immigranti. Rimase operativo dal 1892 al 1954.
Guardate gli occhi!
All’arrivo nel porto di New York, i passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati per primi a bordo delle navi, perché si supponeva che, potendo permettersi l’acquisto di un biglietto di prima o seconda classe, fossero benestanti e avessero meno problemi sia di salute che legali.
I passeggeri di terza classe invece erano imbarcati su un traghetto che li conduceva ad Ellis Island. All’arrivo sull’isola i migranti entravano in una grande sala, dove lasciavano tutti i loro bagagli.
Passavano quindi nei locali adibiti agli accertamenti medici, dove a coloro che avevano bisogno di esami più approfonditi veniva fatto un segno sulla schiena con il gesso: PG per donna incinta, K per ernia, H per malato di cuore, X per problemi mentali.
Un gruppo apposito di medici controllava gli occhi per la ricerca dei sintomi del tracoma, un’infiammazione molto contagiosa, che poteva portare alla cecità e anche alla morte, molto diffusa tra gli emigranti a causa delle cattive condizioni igieniche.
Questo era l’esame più temuto, perché chi mostrava i sintomi della malattia era immediatamente rimpatriato. Più della metà dei rimpatri erano dovuti a questo motivo.
Baggage claim
Gli immigranti che superavano le ispezioni mediche passavano nella sala di registrazione, dove ispettori affiancati da interpreti registravano le generalità di ognuno e rivolgevano domande su disponibilità di denaro, professione, precedenti penali.
Se tutto andava bene, gli immigranti ricevevano il permesso di sbarco. A questo punto tornavano nella sala bagagli per recuperare quanto avevano lasciato.
Nel caos di valigie, borse, zaini, cesti e fagotti, spesso accadeva che qualcuno non trovasse tutto quello che aveva depositato e doveva rinunciare non solo ai pochi e miseri vestiti, ma anche a qualche prezioso ricordo del paese di origine.
Dal Belice alla storia
Così accadde ad Anna Sciacchitano. È il 16 maggio del 1908, Anna è sbarcata ad Ellis Island insieme ai tre figli, Paolo di 13 anni, Maria di tre e Domenico di uno.
Ha lasciato il suo paese di origine, Santa Margherita di Belice, in provincia di Agrigento, per raggiungere il marito, Giovanni Gustozzo, che è emigrato in Pennsylvania e le ha inviato la metà dei soldi per il biglietto.
L’altra metà Anna l’ha ricavata dalla vendita della casa e degli animali. È rimasta con l’equivalente di cinquanta dollari ed è questa cifra che dichiara di possedere, quando, ancora sulla nave, le fanno le prime domande.
Superate tutte le ispezioni, Anna va a recuperare i bagagli. Ritrova la valigia di cartone legata con la corda, sulla quale Paolo, l’unico della famiglia che sa leggere e scrivere, ha scritto il nome e il cognome della madre. Gli altri bagagli però non riesce a individuarli.
Ed ecco allora che la vediamo ritratta in una foto, con la valigia ai piedi e la figlia più piccola in braccio, mentre Paolo, il più grande, tiene per la mano l’altra sorellina e porta sulle spalle un sacco, evidentemente l’unico altro bagaglio ritrovato.
Scattata dal fotografo americano Lewis H. Hine, la foto diventerà una immagine simbolo dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, riprodotta in una enorme quantità di pubblicazioni di vario tipo e addirittura proposta per un francobollo statunitense da 37 centesimi.
Da Cobh a santino di Ellis Island
Nessun problema con le valigie ci fu invece per Annie Moore, che venne addirittura accolta dal sovrintendente federale all’immigrazione, il quale le regalò una moneta d’oro da dieci dollari e le fece gli auguri per un felice anno nuovo. Era infatti il capodanno del 1892 e Annie era la prima persona ad arrivare nel nuovo centro di Ellis Island.
Il traghetto che l’aveva trasportata insieme al primo gruppo di migranti dalla nave all’isola era adornato con bandierine rosse, bianche e blue e, ci raccontano i giornali dell’epoca, fu accolto da un coro di sirene, campane, fischi e applausi. Annie scese dalla passerella con i due fratelli e salì le scale del centro di accoglienza due gradini alla volta.
Erano partiti due settimane prima da Queenstown (oggi Cobh), nell’Irlanda meridionale, per raggiungere i genitori e altri due fratelli più grandi, emigrati negli Stati Uniti quattro anni prima.
Ed oggi ad accogliere i visitatori del Museo dell’Immigrazione c’è una statua di bronzo che raffigura proprio Annie Moore, “la prima immigrante registrata ad Ellis Island il primo gennaio 1892”.
La coraggiosa diciassettenne irlandese dai capelli castani con la mano destra tiene stretto il manico della sua valigia e con la sinistra si assicura che il vento di gennaio non le faccia volare via il cappello.
Dopo di lei, nel corso dei successivi 62 anni sarebbero sbarcati altri dodici milioni di persone, in gran parte europei, moltissimi dei quali italiani.
La valigia dei boat people
La valigia ha rappresentato e rappresenta ancora oggi l’oggetto che più di ogni altro fa pensare ai movimenti migratori. La valigia come simbolo di un passaggio cruciale nella vita di tanti individui, un momento-chiave sospeso fra la partenza e l’arrivo, fra il passato e il futuro, fra la certezza della fatica per sopravvivere e la speranza di una vita migliore.
Un momento che può preludere alla concretizzazione delle speranze, ma anche a drammatiche delusioni e spesso all’inizio di nuove fatiche, per affrontare pregiudizi, discriminazioni e violenze di ogni tipo.
Valigie che ci parlano di storie individuali ma anche collettive. È il caso della valigia di vinile rossa, appartenente alla giovane vitenamita Cuc Lam, esposta all’Immigration Museum di Melbourne.
Per acquistarla, nel maggio del 1978, Cuc aveva venduto la sua fede nuziale. L’aveva riempita con poche cose ed era fuggita con il marito dal Vietnam, per essere ospitata in un campo profughi in Malesia, prima di ottenere lo status di rifugiato dal governo australiano.
Come Cuc, dopo la vittoria dei nordvietnamiti, molte altre persone abbandonarono il Vietnam, per fuggire alla dura repressione attuata dal nuovo regime: un milione e 300.000 fra il 1975 e il 1989.
Una valigia di patate
Ad un’altra tragedia collettiva ci rimandano alcune valigie esposte al piccolo museo di Princelet Street a Londra, situato in una casa risalente al 1719, dove in origine abitava una ricca famiglia di tessitori. Qui, a partire dalla metà dell’Ottocento, erano stati ospitati immigranti provenienti da vari paesi.
Trasformata in un museo dedicato all’immigrazione e alla diversità, le valigie degli immigrati sono utilizzate come strumenti per l’educazione di bambini delle scuole primarie.
Una di queste, appartenuta a un immigrato irlandese, è stata riempita con patate sulle quali appaiono scritte come “aiutateci”, “abbiamo fame”, “stiamo per morire”, a ricordo della terribile carestia che colpì l’Irlanda fra il 1845 e il 1849, provocando la morte di più di mezzo milione di persone e costringendone altrettante all’emigrazione, in gran parte verso gli Stati Uniti.
Senza terra e senza niente
E quante valigie passate dai finestrini dei “treni del sole”, portate sulle spalle appena scesi dai vagoni, diventate sedili in attesa della partenza, possiamo ancora vedere con qualunque motore di ricerca digitando poche parole chiave, che ricordano la migrazione interna in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta.
Nessuna valigia ricorderà invece i migranti di oggi. Arrivano da terre lontane, devono affrontare viaggi difficili e pericolosi. Prima di intraprendere l’ultima tratta, stipati come sardine in barconi, gommoni o altre precarie imbarcazioni, devono per forza abbandonare quelle poche cose che sono riusciti a salvare. Quei pochi che riescono a portare qualche bagaglio, lo devono gettare in mare quando la barca comincia a imbarcare acqua.
Restano solo pochi soldi fasciati perché non si bagnino, documenti ma non sempre, medicine e foto di famiglia. Tanti, troppi, non riescono nemmeno ad arrivare e anche di loro restano pochi miseri oggetti, come quelli esposti nel giugno del 2016 al Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo a Lampedusa nel giugno del 2016.
La NS tornerà giovedì 21 aprile con il quinto episodio della storia della valigia.