di Mario Matteini
[Primo episodio di otto della serie “La password nella storia”]
Post pubblicati:
1. La lingua che discrimina
2. La parola d’ordine da Ificrate a Lamarmora
3. Le societá segrete dell’ottocento
4. L’inutile strage della Grande guerra
5. Parole di liberazione
6. Le spie della guerra fredda | 6.1 La temeraria Martha | 6.2 Polyakov, la talpa gigante al Cremlino | 6.3 Lost in translation
7. Come ai tempi della Guerra fredda
8. Dalla realtà alla finzione
9. Usare bene la password
Buon giorno e buon fine settimana. Dopo vaccinazione, telegramma, valigia eccoci a un nuovo appuntamento del ciclo “Le parole nella storia” di Mario Matteini che continua, impavido come Braveheart (su Disney +), a portare avanti questo bel progetto storiografico che speriamo presto di trasformare in un libro.
Stavolta la parola scelta da Mario è abbastanza terrificante, PASSWORD. Mi chiedo anche come possa essere possibile scrivere otto episodi su una parola che di storia sembra averne pochissima. E invece ne ha e non è banale.
Quando sento password la associo subito al motto scagliato da Cambronne agli inglesi sul terreno brumoso di Waterloo.
Certo quando si accende di rosso la casella della password e non ci resta che l’opzione “Dimenticata la password?” la parola che viene è proprio quella del generale dei granatieri di Napoleone.
Un incubo
Se avete dimenticato la password del vostro account cripto, siete fritti. Se avete dimenticato la password per sbloccare l’iPhone e avete esaurito i tre tentativi, siete del gatto. È inutile andare alla Genius Bar. Meglio prendersi dello spazio iCloud per 0,99. Ma bisogna farlo prima di avere fatto il casino, e poi anche lì ci vuole la psw. Tutti la vogliono, ma attenti ad usare sempre la stessa!
L’esperto di sicurezza Giorgio Sbaraglia, autore di un libro che tutti dovremmo leggere, scrive:
Utilizzare la stessa password (magari anche abbastanza forte) è una pessima e pericolosa abitudine… Mark Zuckerberg usava per tutti i suoi account social la stessa password di LinkedIn, e questa password era nientemeno che “dadada”!
Immaginatevi che cosa gli è successo. Lo stesso che è successo a Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter e Sundar Puchai, capo di Google. Anche loro avevano avuto poca fantasia. Figuriamoci noi!
Nel pozzo della storia
Non si direbbe, fin dai tempi antichi, addirittura biblici, l’innominato antenato della psw ha assunto un significato fortemente identitario, identificativo e di discrimine tra “noi” e “voi”. In quel lontano mattino dell’umanità la psw era semplicemente un fonema, era un suono archetipale.
Il nostro Mario Matteini si è immerso nel pozzo della storia e ha portato in superficie delle vere e proprie gemme che è difficile solo immaginare che siano davvero esistite.
Buona lettura! Ci scusiamo se questi episodi sono un po’ più estesi di quanto dovrebbero, ma la storia non va in saldo.
Noi siamo noi e voi siete voi
Il termine “password” ci rimanda inevitabilmente al mondo digitale. In questo mondo la password ha visto i suoi primi passi negli anni Sessanta del Novecento, grazie al fisico e informatico americano Fernand Corbatò.
La nascita avvenne nel 1964, quando Corbatò, dopo aver progettato il Compatible Time-Sharing System (CTSS), un sistema operativo utilizzabile da più utenti, per tutelare i dati e il lavoro di coloro che lo condividevano, pensò a un accesso codificato. Da allora la password è diventata uno strumento indispensabile per muoversi nel mondo digitale.
In realtà la password esiste da molto prima degli anni Sessanta del Novecento. Naturalmente con altri nomi, diversi a seconda dei tempi e dei contesti. “Parola d’ordine” è l’espressione più comune, ma ne esistono numerose altre.
In qualunque modo la si chiami, in qualunque contesto la si collochi, la parola d’ordine è sempre stata utilizzata per includere ed escludere, accettare e respingere.
Più semplicemente – forse più banalmente – per distinguere amici da nemici. Uno strumento dunque per proteggere e difendere, ma, in certi casi, anche per offendere e attaccare: non solo per escludere nemici o sospetti tali, ma proprio per eliminarli fisicamente.
Il pane quotidiano
L’impiego di parole o espressioni per identificare i nemici risale a tempi lontani e non è molto variato nel corso della storia. Vediamolo con una parola che appartiene all’orrore dei nostri giorni e con una che ci rimanda invece assai indietro nel tempo.
La prima parola è “palyanitsa”, che in lingua ucraina indica il pane tradizionale, quello di uso quotidiano. A partire dal febbraio 2022, in seguito all’aggressione russa, la parola palyanitsa, oltre a indicare qualcosa che è prezioso per la sopravvivenza, è diventata preziosa in sé.
Uno dei modi usati dalle forze di difesa ucraine per smascherare i sospetti sabotatori russi che si fanno passare per cittadini ucraini è quello di chiedergli di pronunciare la parola palyanitsya, che i russofoni non riescono a pronunciare correttamente.
Palyanitsa infatti è una “shibboleth”, ossia una parola con caratteristiche fonetiche così particolari che uno che non sia madrelingua difficilmente la pronuncia in modo corretto, e pertanto può essere facilmente individuato come appartenente a un altro gruppo linguistico.
Traditi dalla “sc”
Una parola siffatta può dunque essere usata come parola d’ordine, per riconoscere un nemico o anche semplicemente uno straniero. La prima volta che si fece ricorso a questo stratagemma risale a circa mille anni prima della nascita di Cristo.
Siamo sulle rive del Giordano, la tribù di Galaad e di Efraim si stanno combattendo. I Galaaditi hanno la meglio e cercano di impedire agli Efraimiti di guadare il fiume per fuggire e, per poterli distinguere fra i sopravvissuti alla battaglia, chiedono loro di pronunciare la parola shibboleth, che in ebraico antico significa, a seconda dei contesti, spiga oppure ruscello o fiume in piena.
Così potranno essere individuati, perché la loro lingua non contiene il suono “sc”. Così descrive la vicenda il libro dei Giudici del Vecchio Testamento (Gdc 12, 5-6):
I Galaaditi occuparono i guadi del Giordano in direzione di Èfraim. Quando uno dei fuggiaschi di Èfraim diceva: «Lasciatemi passare», gli uomini di Gàlaad gli chiedevano: «Sei un Efraimita?». Se rispondeva: «No», i Galaaditi gli dicevano: «Ebbene, di' Scibbòlet», e se quello diceva: «Sibbòlet», non riuscendo a pronunciare bene, allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano. In quell'occasione perirono quarantaduemila uomini di Èfraim.
Non è possibile accertare quanti furono i morti causati dalla errata pronuncia di Shibboleth, probabilmente 42.000. Quello che è certo è che la prima parola d’ordine della storia è legata a una guerra e alle morti da questa provocate. Non era un buon inizio.
Traditi dal francese
Nel corso della storia altre shibbolleth saranno usate come parole d’ordine, e quasi sempre nel corso di guerre per individuare ed uccidere nemici.
Andando in ordine cronologico, una delle prime che incontriamo risale al XIII secolo.
Siamo in Sicilia, nei giorni successivi alla Pasqua del 1282, i siciliani sono stanchi dell’oppressione degli occupanti angioini. L’oltraggio di un soldato francese a una donna siciliana, palpeggiata durante una perquisizione dopo la messa del vespro, fa scatenare la rivolta. È la rivolta dei Vespri siciliani.
I francesi, impauriti, si travestono e cercano di confondersi fra la gente. Per smascherarli, i rivoltosi girano per le strade con un pugno di ceci in mano e ad ogni sospetto chiedono di dire che cosa sono.
Se il sospetto risponde “ciciri” è salvo, ma, se è francese, non ce la fa proprio e “scisciri” è l’ultima parola che gli esce di bocca.
Venti anni dopo, ancora una volta ai francesi tocca fare un pericoloso test linguistico.
Nel 1301 i francesi di Filippo IV il Bello avevano occupato le Fiandre. La popolazione, esasperata dalle vessazioni cui era sottoposta, si ribellò.
La mattina del 18 maggio del 1302, a Bruges, gli insorti fecero irruzione nelle case dove abitavano i francesi.
Per riconoscerli chiedevano loro di pronunciare le parole “schild en vriend” (scudo e amico), difficili da pronunciare correttamente per i non fiamminghi. Alla pronuncia scorretta seguiva l'esecuzione immediata. Gli uccisi furono un migliaio.
Per analogia con il "Vespri siciliani", l'episodio fu chiamato "Il Mattutino di Bruges".
In America Latina
Facciamo un salto di qualche secolo e spostiamoci in un altro continente. Siamo in Colombia, fra il 1810 e il 1819, i colombiani lottano per l’indipendenza dalla Spagna e gli insorti devono distinguere i colombiani dagli spagnoli.
La differenza dei tratti somatici può aiutare, ma non dà la certezza. La lingua invece è più attendibile e in particolare la pronuncia della lettera “c”, che i colombiani pronunciano proprio “c” e gli spagnoli “s”. E così la parola “Francisco” diventa il test che può costare la vita agli spagnoli.
Ancora in America Latina, nel corso della cosiddetta Guerra della triplice alleanza fra Brasile, Uruguay e Argentina contro Paraguay (1864-1870), la lingua è scelta per distinguere amici da nemici. Questa volta non è lo spagnolo ma il portoghese.
I soldati brasiliani cercano di individuare le spie paraguaiane infiltrate fra le truppe brasiliane, facendo pronunciare ai sospetti la frase “Cair no poço não posso” (Non posso cadere nel pozzo). La pronuncia senza la corretta distinzione fra “o” chiuse ed aperte è discriminante.
Finlandesi e russi
Arriviamo al Novecento, dopo l’evento epocale che segna l’inizio del “secolo breve”. Siamo in Finlandia fra il 1917 e il 1918, poco dopo la Rivoluzione di ottobre in Russia.
Alla proclamazione dell'indipendenza ha fatto seguito una violenta guerra civile fra bianchi, sostenuti dalla Germania, e rossi, appoggiati dai sovietici.
Tampere, che è una roccaforte dei rossi, è attaccata dai bianchi nel marzo del 1918. Questi, per individuare i soldati russi che indossano abiti civili e si mescolano con i prigionieri fanno pronunciare la parola finlandese “yksi” (uno).
Se il prigioniero pronuncia in modo scorretto è considerato combattente straniero ed è ucciso sul posto.
Il prezzo di un coreano
La diffidenza e l’ostilità nei confronti di chi usa una parola insolita o parla con un accento diverso o una particolare intonazione non si manifestano solo in caso di guerra.
Sono espressione di un razzismo così radicato in molte società che talvolta, in alcune circostanze, una pronuncia sbagliata è una prova che fa scattare la violenza verso interi gruppi etnici.
Significativo è quanto accadde in Giappone dopo un violento terremoto, che il primo settembre del 1923 aveva colpito la regione di Kantō. Morirono più di centomila persone, molte a causa dell’incendio delle proprie abitazioni, perché le scosse più violente si verificarono all’ora di pranzo, mentre nelle cucine si preparavano i pasti.
Nei giorni successivi al disastro si diffusero false notizie a proposito di cittadini coreani residenti in Giappone, accusati di aver avvelenato i pozzi e di aver compiuto azioni di sabotaggio.
Erano chiaramente accuse infondate ma, pubblicizzate a mezzo stampa e avvalorate dalle autorità cui faceva comodo dirottare l’attenzione pubblica dalle proprie responsabilità, vennero prese per vere dalla popolazione esausta, provata dal dolore e dalla disperazione.
Si scatenò così una vera e propria caccia al coreano. Ma non era facile distinguerli dai giapponesi, e allora i sospetti erano obbligati a pronunciare ju-goen-gojissen (15,50 yen), che i coreani non riescono a dire correttamente.
Chi non ci riusciva era eliminato. Così vennero uccisi migliaia di coreani, ma anche cinesi, giornalisti e giapponesi scambiati per stranieri, solo per aver un accento diverso o perché portavano la barba.
La storia è stata ricostruita accuratamente nell’episodio finale della prima stagione della serie TV Pachinko, la moglie coreana (su Apple TV+).
Il ricordo di Akira
Ce ne parla il famoso regista Akira Kurosawa, allora tredicenne, nella sua autobiografia:
Per il solo fatto che mio padre portava la barba, fummo circondati da una folla armata di bastoni […] ‘Idioti’, gridò mio padre con voce corrucciata, e la folla si disperse mogia mogia. Di notte, nel nostro quartiere tutte le famiglie dovettero mettere un uomo di guardia. […]
Non vedendo altra soluzione, presi la mia spada di legno e mi feci guidare all’imboccatura di un tubo discartico largo abbastanza per un gatto. Mi assegnarono quel posto di guardia dicendomi: ‘I coreani potrebbero infilarsi qui …’ Ma si verificò un caso anche più ridicolo. Ci dissero di non bere l’acqua di uno dei pozzi nei dintorni.
La ragione era che sul muro di cinta del pozzo c’erano delle strane iscrizioni tracciate col gesso bianco. Si supponeva fosse un avvertimento in codice dei coreani e che il pozzo fosse avvelenato.
Ne rimasi sbalordito. La verità era che la strana iscrizione l’avevo scribacchiata io stesso. Vedendo gli adulti che si comportavano in quel modo, non potevo fare a meno di scuotere la testa e di meravigliarmi della razza umana.
Quel diavolo di prezzemolo
Nell’ottobre del 1937 nella Repubblica dominicana retta dal dittatore Rafael Trujillo fu attuata una vera e propria pulizia etnica nei confronti della popolazione di origine haitiana.
Per riconoscere gli haitiani, i sodati domenicani mostravano ai fermati un ciuffetto di prezzemolo, chiedendo loro che cosa fosse.
Gli haitiani, di lingua madre francese, non riuscivano a pronunciare correttamente la parola spagnola perejil (prezzemolo). L’errata pronuncia comportava la condanna a morte.
Si calcola che in pochi giorni siano stati uccisi fra i 20.000 e i 30.000 haitiani.
Per una elle in più
A distanza di circa venti anni dal terremoto di Kantō e dal massacro di coreani, toccò ai giapponesi cimentarsi con pericolosi test fonetici.
Nel corso della seconda guerra mondiale, sul fronte del Pacifico, i giapponesi erano soliti inviare nelle zone sotto controllo americano spie che si facevano passare per cittadini statunitensi o ribelli filippini.
Per individuarli gli americani facevano pronunciare la parola “lollapalooza”, molto difficile da pronunciare correttamente per i giapponesi, a causa della presenza della lettera "elle".
In caso di pronuncia scorretta i soldati americani avevano l'ordine di sparare, e spesso lo facevano ancora prima che fossero pronunciate le ultime sillabe.
La Babele del Caucaso
Concludiamo questa parte tornando dove abbiamo iniziato, ossia nei tormentati territori della ex Unione Sovietica, dove, dopo il 1991, contrapposte rivendicazioni territoriali, contrasti interetnici e lotte per il potere hanno originato violenti conflitti fra stati e sanguinose guerre civili.
La regione più rappresentativa della situazione di conflittualità è il Caucaso.
Fino al 1991, per la maggioranza dell’opinione pubblica mondiale gli abitanti del Caucaso, in quanto tutti cittadini sovietici, erano semplicemente russi. In realtà la regione caucasica è un complesso mosaico di gruppi etnici, che conoscono tutti il russo ma parlano almeno quindici lingue diverse.
I lunghi domini zarista prima e sovietico poi non sono riusciti a cancellare le identità nazionali e a spegnere le istanze di indipendenza.
Queste sono prepotentemente riemerse alla fine degli anni Ottanta del Novecento. Le prime rivendicazioni autonomistiche si verificarono nel Nagorno-Karabakh, un territorio conteso fra Armenia e Azerbaigian fin dalla nascita dell’URSS.
Dopo alterne e conflittuali vicende, fu inserito come regione autonoma nella repubblica sovietica dell’Azerbaigian. Questo generò l’insoddisfazione degli armeni, che non hanno mai rinunciato a chiedere l’annessione all’Armenia.
Le nocciole del Nagorno-Karabakh
Alla fine degli anni Ottanta del Novecento, incoraggiati dalle riforme di Gorbačëv, gli armeni intensificarono le loro iniziative a sostegno dell’annessione del Nagorno-Karabakh all’Armenia.
Le autorità azere, sostenute dal governo centrale dell’URSS, attuarono una durissima repressione. Gli episodi più violenti si verificarono a Sumgait, una città industriale sulle coste del Mar Caspio, pochi chilometri a nord della capitale Baku.
Costruita negli anni Quaranta del Novecento, Sumgait era popolata in gran parte da armeni, ai quali in seguito si erano aggiunti gruppi di atzeri deportati dall’Armenia da Stalin.
Alla fine di febbraio del 1988, dopo una serie di scontri fra i due gruppi etnici, la situazione degenerò, e gli azeri sottoposero gli armeni a violenze di ogni tipo.
Bande armate organizzarono una vera e propria caccia agli armeni della città, prelevarono persone sospette dalle loro abitazioni, dalle auto, dagli autobus, dagli ospedali e, per accertarne l’appartenenza etnica, facevano pronunciare la parola fundukh (nocciola), che gli armeni pronunciano diversamente dagli azeri.
Nel 1991, con la dissoluzione dell’URSS, dalle tensioni interetniche si passò al vero e proprio conflitto armato. Di nuovo il Nagorno-Karabakh divenne oggetto di contesa fra l'Azerbaigian e l'Armenia, che si fronteggiarono in due sanguinose guerre fra il 1991 e il 2020, negli stessi anni in cui altri conflitti provocavano decine di migliaia di vittime in altri stati sorti dalla disgregazione dell’Unione Sovietica.
Medici e Veneziani*
Quando i Medici intendevano smascherare un infiltrato veneziano alla loro corte fiorentina, organizzavano un banchetto solenne al quale invitavano il sospetto che era trattato alla stregua di un ospite d’onore.
Al dolce, dopo abbondanti vino e libagioni, il padrone di casa si rivolgeva con fervore all’ospite annunciandogli che intendevano gratificarlo con la compagnia di una bellezza fiorentina di nome “Haterina”. Bastava che l’illustre ospite la chiamasse.
Ben sollecito il veneziano declamava d’istinto “Katerina”. Il giorno seguente era già a Sollicciano.
* Chiaramente questa storia è apocrifa e l’ho inventata io. Chiedo venia a Mario Matteini, ma erano troppo “divertenti” (forse non è la parola giusta) le sue storie trovate nel pozzo di Clio.
Prima di andare
Cinémathèque française. Nella avveniristica sede della Cinémathèque française a Parigi al Parc de Bercy dal 30 maggio al 12 giugno si terrà La “Rétrospective Néoréalisme: 20 indispensables!” Ecco gli indispensabili:
Ossessione di Luchino Visconti (1942, su Prime video)
Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti (1942, su YouTube)
I bambini ci guardano di Vittorio De Sica (1944, su YouTube)
Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945, su Chili)
Sciuscià di Vittorio De Sica (1946 , su YouTube)
Il bandito di Alberto Lattuada (1946, su YouTube)
Paisà di Roberto Rossellini (1946, su YouTube)
Vivere in pace di Luigi Zampa (1947, su RaiPlay)
Caccia tragica di Giuseppe De Santis (1947, su YouTube)
Germania, anno zero di Roberto Rossellini (1948, Su Chili)
Senza pietà di Alberto Lattuada (1948, su YouTube)
La terra trema di Luchino Visconti (1948, su YouTube)
Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1948, su YouTube)
In nome della legge di Pietro Germi (1949, su YouTube)
Riso amaro di Giuseppe De Santis (1949, su YouTube)
Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni (1950, DVD)
Luci del varietà di Federico Fellini, Alberto Lattuada (1950, su YouTUbe)
Stromboli di Roberto Rossellini (1950, su YouTube)
Umberto D. di Vittorio De Sica (1952, su YouTube)
L’amore in città di Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi, Cesare Zavattini (1953, su Chili)
Bellissimo il video di presentazione. Grazie Francia, patria del grande cinema. Guardateli tutti. Devo chiedere al mio amico Gianluca di MYmovies di replicarli sul loro servizio di streaming. Mica possiamo essere a meno dei francesi!