❇ 7° episodio della serie “I numeri nella storia”.
Articoli pubblicati
1. Armonie&Numeri
2. Nati nello stivale
3. Le magnifiche 21
4. La carneficina che torna
5. E non rimase nessuno
6. La dolce discesa alla pensione
7. L’età pensionabile di Bismarck
Buongiorno e buon fine della settimana che include il 1° maggio, festa delle persone che lavorano, ma anche di quelle che non lo fanno più.
Dopo il parapiglia che è successo in Francia, viene da domandarsi quali sia l’età pensionabile corretta per le persone del nostro tempo. La risposta è, naturalmente, dipende. C’è qualcosa oltre questo “dipende”? La storia ci aiuta a rispondere, come succede spesso.
Il modello prussiano
La storia è il più grande giacimento di paradossi. Uno di questi è che il primo embrione di stato sociale si deve ai prussiani. Sì, proprio a loro, cioè a quelli con l’elmo chiodato in testa con il quale spesso si faceva ritrarre anche Otto Von Bismarck, Eiserne Kanzler (Cancelliere di ferro) del Reich per 30 anni sotto tre imperatori.
Negli anni Ottanta del 19° secolo, Bismarck, dopo aver unificato la Germania e attuato una risoluta politica di potenza, si dette a un programma di politiche sociali che non ti saresti atteso da gente come quella.
Ancor’oggi si ritiene che nel campo dell’assistenza sanitaria il modello bismarckiano risulti migliore e più efficiente del modello Beveridge che è alla base di tutti i moderni welfare state europei. “BBB. Bismarck Beats Beveridge” è il titolo di un capitoletto dell’Euro Health Consumer Report.
Il concetto di età pensionabile
Nel 1881 lo Eiserne Kanzler stabilì per legge l’età pensionabile, 70 anni. Che senso aveva quella cifra se l’aspettativa di vita in Germania nel 1880 era di 39 anni?
Si maligna che quando varò questo provvedimento il cancelliere, già 66enne, vedeva, come accadde, qualche altro anno di potente premierato davanti a sé. Non c’era ragione di tagliare il ramo sul quale era seduto. I tedeschi dovevano portare pazienza. Il provvedimento era per gli Junkers.
Consapevole o meno, Bismarck aveva però introdotto il concetto di età pensionabile, un concetto in odore di socialismo. E infatti fu accusato di tenderci, ma lui rispose con nonchalance “Chiamatelo socialismo o come vi pare, per me è lo stesso”. Era uno che andava dritto alle cose come Carrie Mathison in Homeland (Disney+).
35 anni dopo, nel 1916, l’età pensionabile in Germania fu portata a 65 anni e 65 divenne un numero magico. Quando il presidente Roosevelt istituì il Social Security Act nel 1935, 65 anni divenne l’età della pensione a stelle e strisce. Purtroppo solo il 40% degli americani raggiungeva il giorno per godersela.
Ritorno a Bismarck
Anno più, anno meno, l’età pensionabile è rimasta quella. Però l’aspettativa di vita è cresciuta molto e in alcuni paesi ha raggiunto o superato gli 82 anni. In Giappone addirittura 84. Lì non mangiano latticini.
Secondo alcuni osservatori, per determinare l’età pensionabile “ideale”, occorrerebbe tener di conto di un parametro definito come “working-life expectancy” che si potrebbe rendere, per non prendere multe, con il nazionale “aspettativa di vita lavorativa”.
Tale parametro è determinato dal rapporto tra il tipo di lavoro e le condizioni fisiche, mentali e psicologiche per portarlo avanti con giovamento.
Si congettura che per alcune professioni l’età stabilita dal ferreo cancelliere Bismarck potrebbe essere quella ideale. Alcuni l’elevano di altri 3 anni.
Se però non esiste alcuna distinzione tra lavoro e vita, come succedeva a Steve Jobs, il problema dell’età non esiste.
Visto che adesso l’argomento diventa una banchina sdrucciolevole come quella sul lago di Ginevra prospiciente al getto d’acqua dopo una notte fredda e umida, vi lascerei alle considerazioni del nostro storico di turno che già conoscete bene: Mario Matteini. Sono molto interessanti.
Invecchiamento della popolazione e pensioni
di Mario Matteini
L’insostenibilità delle spese previdenziali
Molti dei problemi che affliggono la società contemporanea hanno a che fare con i numeri. Ma ce n’è uno per trattare il quale si attraversa una vera e propria giungla di numeri ed è quello delle pensioni.
Sono numeri che ci parlano dei conti dello Stato, delle spese previdenziali in particolare, dei pensionati in crescita rispetto agli occupati, dell’ammontare delle pensioni pagate squilibrato rispetto ai contributi previdenziali versati.
Tutti numeri che in genere portano alla medesima conclusione: l’insostenibilità del peso delle pensioni sui conti dello Stato. E da questa conclusione si dipartono innumerevoli calcoli, e quindi altri numeri, per cercare di risolvere il problema. E anche in questo caso il punto di arrivo è sempre lo stesso: la necessità di innalzare l’età pensionabile.
Lavorare non stanca
D’altra parte, dicono altri numeri, è cresciuta l’aspettativa di vita, quindi si può e si deve lavorare di più.
Ed ecco che a sostegno di questa soluzione si citano studi, ricerche ed eminenti geriatri, pronti ad affermare senza ombra di dubbio che lavorare di più non solo si può, ma fa anche bene alla salute.
E giù altri numeri, per dimostrare che chi va in pensione prima si ammala di più e addirittura vive di meno.
Tutti contenti dunque: innalzare l’età del pensionamento fa bene allo Stato, perché spende meno per pensioni e assistenza, e giova all’anziano, perché vive di più e sta meglio in salute.
Ma sarà proprio vero?
Certo, si dice anche e per fortuna, bisogna distinguere. Si deve tener conto del tipo di lavoro: ci sono lavori usuranti che, praticati in età più avanzata, non fanno tanto bene alla salute.
E poi ci sono non pochi studi, attendibili ma chissà come mai meno citati, che arrivano a conclusioni diametralmente opposte: non è vero che il pensionamento produce stress fisico e mentale, anzi ne favorisce la riduzione. E in più il pensionato tende ad adottare stili di vita più salutari: dorme di più, fa attività fisica, dedica più tempo a se stesso e al proprio benessere fisico e mentale.
Certo, anche in questo caso si devono fare distinzioni. Si deve tener conto di vari fattori che incidono sulla qualità della vita: il reddito percepito, l’istruzione, gli interessi coltivati, la disponibilità alla vita sociale.
La globalità del problema
La crisi del sistema previdenziale non dipende solo dai cambiamenti nell’andamento demografico. A questi vanno aggiunti mutamenti strutturali avvenuti nell’economia, originati in gran parte dalla globalizzazione, che ha rivoluzionato il mercato del lavoro, diventato anch’esso globale, con ripetute delocalizzazioni delle attività produttive ed esaltazione della flessibilità.
Di pari passo si è affermata la politica economica neoliberista con lo smantellamento dello stato sociale, le privatizzazioni, il predominio delle attività finanziarie puramente speculative, fuori controllo e causa di ricorrenti crisi con effetti globali.
E aggiungiamo infine due fenomeni di enorme portata e di sicura incidenza sulla questione di cui ci stiamo occupando: la crescente iniquità nella distribuzione della ricchezza e il progressivo aumento dei flussi migratori.
Contiamo anche il denominatore
Per affrontare un problema così complesso, molti paesi prendono in considerazione prevalentemente il rapporto fra uscite, ossia ammontare delle pensioni, e entrate, vale a dire la somma dei contributi previdenziali, e, in più, preferiscono agire soprattutto sul numeratore. Non considerando, o non volendo considerare, che, trattandosi appunto di un rapporto, questo si può ridurre anche intervenendo sul denominatore, magari facendo una lotta efficace contro il lavoro nero, contro l’evasione contributiva e quella fiscale in generale, e adottando misure serie per favorire l’aumento dell’occupazione, specialmente giovanile e femminile.
In Italia nel 2021 la percentuale delle donne occupate, di età compresa tra i 15 e i 64, era meno del 50 %, ben 14 punti percentuali al di sotto della media dell’Unione Europea. La crescita dell’occupazione femminile avrebbe ricadute positive, nell’immediato, sull’ammontare della contribuzione e sull’invecchiamento della popolazione e quindi, nel medio periodo, sulla crescita della popolazione attiva.
La Silver Economy
Se concentriamo l’attenzione sull’invecchiamento della popolazione e in più ne evidenziamo i costi sociali, finisce che attribuiamo valore negativo a un aspetto della società contemporanea che è tutt’altro che negativo. Non lo è di per sé, in quanto segno di miglioramento delle condizioni di vita e di progresso sociale in generale. Non lo è per le numerose ricadute positive che ha sulle dinamiche economiche e sociali. Basta pensare che attorno ad esso ruota la cosiddetta Silver Economy, un settore economico di grande rilevanza.
Anche in questo caso i numeri sarebbero tantissimi. Accontentiamoci di quelli più significativi. In Italia il valore complessivo dei consumi degli over 65 è in continua crescita e si calcola che potrà raggiungere il 30% dei consumi collettivi entro pochi anni.
L’Oxford Economics e Technopolis Group stima che entro il 2025 solo in Europa la Silver economy arriverà a valere 5,7 trilioni di euro, somma pari a quasi un terzo del PIL dell’Unione. A livello mondiale il valore supera i 15 mila miliardi di dollari, praticamente la terza potenza economica mondiale.
La domanda di beni e servizi interessa numerosi settori (servizi alla persona, edilizia abitativa, arredamento, trasporti, alimentazione, assicurazioni, tecnologia, salute , comunicazioni, turismo e tempo libero) e rappresenta una notevole opportunità di crescita economica con importanti ricadute anche sull’occupazione, visto anche l’alto numero persone impiegate nei servizi agli anziani.
L’invecchiamento come driver commerciale
Lo hanno ben capito varie imprese multinazionali e non (Oréal, Nestlé, Danone e molte altre), che hanno posto gli anziani e l’invecchiamento al centro delle loro strategie commerciali.
Ed ecco allora che accendiamo la televisione e vediamo rughe che scompaiono, dentiere saldamente ancorate alle gengive, signore non più imbarazzate a salire in ascensore, nonne che tornano a saltellare con i nipoti, uomini che confessano di avere problemi sotto le lenzuola o che di notte si alzano da letto perché hanno sentito un rumore.
Tutte persone naturalmente di una certa età, ma, mi raccomando, arzille e desiderose di restare giovani e scattanti, eccetto qualche povero sfortunato che ha bisogno di un montascale.
Gli anziani come risorsa
Si deve infine considerare che gli anziani sono spesso essi stessi produttori di servizi: sono di supporto ai figli, ai nipoti, si impegnano in attività di volontariato in diversi settori, andando spesso a sopperire a carenze delle istituzioni pubbliche e quindi alleggerendo i costi per la collettività.
E allora, appurato che l’invecchiamento della popolazione rappresenta sì un costo per la collettività ma anche una risorsa, perché, oltre a pensare a misure per attenuarne gli effetti negativi, non si pensa anche a provvedimenti capaci di potenziare quelli positivi?
Visto che, per fortuna, non si possono porre limiti alla crescita del numero degli anziani, perché non fare in modo che la qualità della loro vita sia migliore possibile? Sarebbe primo di tutto un bene per loro stessi, ma anche per la collettività e per il sistema economico, perché potenzierebbe gli effetti degli anziani in quanto consumatori di beni e servizi e produttori essi stessi di servizi.